Non c’è dubbio che negli ultimi anni le chitarre più presenti sulla scena indipendente, con buona pace degli scettici, siano state quelle del post-punk. Non sono mai state sopite in realtà, ma nell’ultimo decennio hanno conosciuto una rinascita decisamente importante, dovuta anche alle forti connotazioni politiche e sociali del genere e ad un risveglio di parecchie coscienze (soprattutto giovani) di fronte ai disastri che ci passano ogni giorno davanti agli occhi.

Musica di protesta, musica di disperazione, e gli alfieri ormai li conosciamo tutti. IDLES, Fontaines D.C. e Shame sono i volti da copertina (e di tutti questi aspettiamo i nuovi lavori nel 2020), ma c’è un foltissimo sottobosco che merita di essere scoperto o recuperato: Iceage, The Murder Capital, Ought, Parquet Courts, Protomartyr, Preoccupations e tantissimi altri.

In attesa dei nomi grossi (A Hero’s Death dei Fontaines D.C. uscirà tra pochi giorni), abbiamo pensato di recuperare 7 album post-punk usciti nel 2020 che pensiamo meritino anche la vostra attenzione. Diamo il via alle danze, buon ascolto!

Moaning – Uneasy Laughter

I Moaning arrivano da Los Angeles, ma il sole della West Coast non batte da queste parti. Uneasy Laughter, secondo album del terzetto, baratta qualche etto di chitarre dell’esordio con una manciata di synth belli freddi, per un ritorno agli 80’s (e contestualmente ai primi anni zero) che sì, magari non suonerà nuovissimo, ma suona dannatamente bene. I Moaning riescono a tirare fuori dei pezzi che si appiccicano in testa: è il caso del primo singolo Ego, della successiva Make It Stop o della decadente What Separates Us, ma sono parecchi i pezzi che meritano una menzione. La strada battuta è quella che passa per Cure, Interpol, New Order (ci sono quei synth, quel basso e quelle chitarre ), mentre pure i testi si fanno spazio tra disillusione e negazione tipicamente giovanili (“I wanna be anybody but myself / I wanna love anybody but myself“). Non inventando niente di nuovo, è facile temere che Uneasy Laughter non conquisterà la scena, ma dategli una chance: come tanti giovani emulatori prima di loro (mi vengono in mente i Cinematics) i Moaning prendono i testi post-punk e li ripetono pedissequamente, ma lo fanno molto bene.

Voto: 7.0/10Sebastiano Orgnacco

Public Practice – Gentle Grip

L’album di debutto dei Public Practice da Brooklyn è un connubio di influenze che funzionano benissimo, dando al disco una fluidità che, recentemente, pochi album hanno avuto. L’ovvia impronta post-punk fa contemporaneamente da sfondo e da protagonista, coadiuvata con sonorità che oscillano dal bowieiano al synth-pop passando al rock più classico, senza far risultare il tutto un minestrone confusionario.
Disposable sembra essere il pezzo che spinge di più il disco con le sue chitarre ben definite e la voce graffiante della leader del gruppo, Samantha York, le cui qualità sono sempre ben messe in risalto in ogni brano. L’elastico attraverso il quale i Public Practice hanno deciso di far scorrere l’intero disco si allunga ed accorcia a loro piacimento, bilanciando tutte le componenti e le scelte stilistiche frullate in 43 minuti, durante i quali nessun pezzo annoia. L’impressione è che il gruppo abbia posizionato l’asticella molto in alto; chissà se le future release saranno in grado di sfiorarla.

Voto: 7.4/10Davide Deleonardis

The Cool Greenhouse – The Cool Greenhouse

Da adolescente Tom Greenhouse, la mente dietro al progetto The Cool Greenhouse, convinto di essere Arthur Rimbaud, per seguire le orme del poeta maledetto, decide di trasferirsi a Parigi. Il soggiorno francese, però, dura poco e Tom fa presto ritorno nella natia Inghilterra, prima a Londra e poi a Norwich. Ed è qui – nella quiete del proprio giardino – che il paroliere trova la giusta ispirazione: mette insieme appunti presi leggendo articoli di giornale ed esperienze di vita quotidiana e li trasforma in undici canzoni. Togliamoci subito il dente: The Cool Greenhouse non è un disco di facile ascolto. I 48 minuti di questo album d’esordio si reggono interamente sulle spalle (e sulle parole) di Tom Greenhouse – data la totale assenza di ritornelli killer e la contemporanea presenza di riff ripetitivi e ossessivi. Attraverso lo spoken-word veniamo condotti nel flusso di coscienza del paroliere, tra acquisti sbagliati di pessimi vasi (Life Advice), l’amore per il West Ham – “Or was it Aston Villa?” – e Harry Potter (Cardboard Man) e giornate passate a “photoshoppare” Tyler Durden e Patrick Bateman (4chan). Come dichiarato dallo stesso frontman, l’obiettivo con questo The Cool Greenhouse era quello di “scrivere musica ripetitiva che non risultasse pretenziosa”. A voi il compito di giudicare se sia riuscito o meno nel suo intento. A voi il compito di giudicare se sia riuscito o meno nel suo intento. A voi il compito di giudicare se sia riuscito o meno nel suo intento. A voi il compito di giudicare se sia riuscito o meno nel suo intento.

Voto: 6.3/10Gabriele Di Lauro

Disq – Collector

Inizia in medias res Collector, l’album d’esordio dei Disq; inizia con Daily Routine, un brano di forte eco Parquet Courts che ti avvolge subito perché sembra immediatamente darti un’idea del potenziale di questo debut e di questa giovane band del Wisconsin. Riff distorto, una voce svogliata e inquieta che, nel raccontare la noia post-adolescenziale immersa nell’energia inespressa della routine quotidiana, sa muoversi tra ironia e versi come “Come on and listen to me cry for help“. Ma il frontale con la prima traccia è un’illusione: non è quella la cifra del disco.
E, a cercare bene, si fa fatica a capire quale sia il terreno prediletto dei Disq. Di sicuro, l’influenza maggiore è tutta 90’s. C’è l’alternative dei Weezer e dei Grandaddy in Konichiwa Internet, il frastuono dei Pixies in I’m Really Trying e Gentle; Drum In sembra uscita da un disco dei Pavement, ma c’è anche una forte componente folk nelle più pulite D19, Loneliness e Trash, che ci ricordano che questo esordio è targato Saddle Creek, l’etichetta che ha lanciato i Big Thief. Inteso come album, Collector risulta confuso e dai confini troppo larghi, ma non sarà questo primo, di certo, il miglior lavoro del gruppo, perché una volta presa la mira, il post-punk dei Disq, sicuramente, saprà sviluppare grandi cose in futuro.

Voto: 6.5/10 – Luca Montesi

Sorry – 925

Buona la prima per i Sorry, che raccolgono tutti i singoli rilasciati dal 2018 a oggi e una manciata di tracce nuove in quello che, con ogni probabilità, è uno dei debutti più divertenti degli ultimi tempi. All’apparenza semplice, accessibile, quasi sfacciatamente pop, dietro ogni pezzo di 925 si nasconde tuttavia qualcosa di inaspettato, da cori angelici (Ode To Boy) a scatarrate (Starstruck), da chitarroni distorti (Perfect) a cambi di registro (In Unison). Il duo londinese corre in bilico tra orecchiabile e aggressivo, tra dolcezza e ruvidità, a volte sbavando un po’ dall’una o dall’altra parte, ma producendo comunque un lavoro buonissimo, godibile per tutta la sua durata, ricco anche di momenti coinvolgenti che, inevitabilmente, vi troverete a canticchiare anche dopo aver tolto le cuffie. Post-punk da vacanza.

Voto: 7.0/10Raimondo Vanitelli

Shopping – All Or Nothing

Se le diatribe tra chi bada alla territorialità di alcune produzioni (europee o americane che sia) vi hanno stufato, gli Shopping riescono a levarsi da ogni contesto (non solo di territorio) e cacciano un’ attitudine di una certa importanza con totale facilità. La fluidità con cui ci si sposta tra Londra, Glasgow e L.A. segna in primis l’importanza del battere i tempi con una certa rilevanza e aggressività, successivamente rincarati dalle opposte ridondanze melodiche da spiaggia della costa ponente degli USA. Questo caso nato dall’evoluzione di suoni più danzerecci che una decina di anni fa si potevano trovare nelle radio Britanniche, ora si confronta col resoconto degli anni delle chitarre più di nicchia del post punk/twee americano degli anni 10 e quello romantico-violento anni ottanta, risultando opportuni per particolari momenti d’ascolto. Sperimentando ora con questa formula, la band trova una stanza nella quale esprimere pensieri, anche di un certo tono, in metodi più semplici e diretti, sfoggiando suoni che, volendo, sono anche tratti da classicismi di questo genere musicale.

Voto: 6.5/10Claudio Carboni

Algiers – There Is No Year

Post-punk è un termine riduttivo per una band indefinibile come gli Algiers: il quartetto di Atlanta usa il genere come sfondo su cui costruire un sound spesso imprevedibile, che mescola la new wave al gospel e al funk.
There Is No Year, loro terzo album, riprende alcuni suoni e temi del bellissimo The Underside Of Power (2017), ma in maniera più grave e plumbea, soprattutto nella seconda metà del disco. La scrittura del frontman Franklin James Fisher ha sempre avuto uno sfondo politico, ma in There Is No Year questa abbandona punti di riferimento precisi e si dedica invece a raccontare in maniera più astratta un mondo in tumulto, un’America a fuoco (Dispossession) che sembra quasi una premonizione di quel che sarebbe successo di lì a qualche mese (l’album è uscito lo scorso gennaio). La musica degli Algiers non manca mai di essere interessante e poliedrica, eppure nel disco sono i brani più groovy a restarti addosso e a dettare l’andatura dell’intero lavoro: la già citata Dispossession, Unoccupied e Chaka all’interno del disco ricordano la forza e la rabbia ineguagliabili che emanava The Underside of Power, mentre tra i brani più oscuri spicca We Can’t Be Found, che si sorregge su una linea di basso post-punk ma brucia come una canzone soul.

Voto: 7.0/10Claudia Viggiano

Non finisce qui

Belli questi dischetti, nevvero? Ma se amate il genere non dimenticatevi che è di pochi giorni fa Ultimate Success Today dei Protomartyr, una graditissima conferma. Oppure To Love Is To Live di Jehnny Beth, leader delle Savages, una delle band che ha dato il via al post-punk 2.0 degli anni Dieci. E come dimenticare i Deeper, bellissima scoperta di questa prima metà dell’anno con Auto-Pain? Idem i Porridge Radio, che picchiano forte sulle corde giuste nel secondo album Every Bad. Tanta, tantissima roba da ascoltare fino allo sfinimento, o almeno fino alla prossima serie di recensioni per riempire le vostre playlist.