Con Ultimate Success Today, album numero cinque dei Protomartyr, la band sembra aver chiuso un ciclo. Le recenti parole del frontman Joe Casey – ancora incastrato nell’elaborazione del lutto del padre – non lasciano troppo spazio a scenari alternativi, sebbene arrivino in un periodo storico talmente assurdo ed imprevisto che anche le prospettive future rischiano di subire distorsioni ed inganni incolpevoli. L’impossibilità di suonare in tour, la maturazione artistica, l’esigenza di sentirsi libero, ma anche il mondo che ci circonda, sono tutti elementi che influenzeranno il futuro dei quattro di Detroit e a circa dieci anni dall’esordio qualcosa potrebbe cambiare.

Ma il concetto di “fine” (qui intesa in tutti i modi in cui può essere intesa) è un catalizzatore che, prima ancora della pandemia o degli Stati Uniti di Trump, ha esercitato la maggiore influenza sulle premesse che hanno generato Ultimate Success Today. E in una certa misura i comunicati stampa e le interviste che ne hanno accompagnato i discorsi seri da pre-release centrano subito il punto: si parla di distopia con il riferimento letterario a Cormac McCarthy con La Strada in cui a finire è l’umanità, anche se il catalizzatore è solo una parte del processo di realizzazione; ad esso non si mischia pur influenzandolo e velocizzandolo. E in questi termini il processo ci porta dal romanzo alla realtà: l’apocalisse non è un mondo immaginario, ma semplicemente quello reale, che sa essere ancora più spaventoso dell’immaginazione.

Tutto inizia lentamente con Day Without End, brano ossessivo a tensione crescente che cerca di trascinare l’ascoltatore nel buio un po’ come gli ultimi Daughters e che serve anche a collegare – stravolgendolo – il nuovo lavoro con il precedente Relatives in Descent. Ma se in Half Sister e A Private Understanding si cantava “She’s Trying to reach you / Trying to reach you”, qui le speranze vengono segate sul nascere con “I could not be reached”, come se fossimo veramente e definitivamente nella merda e fossimo arrivati all’ultimo capitolo di qualcosa.

L’album prosegue con la furia di un cataclisma. Del resto dai Protomartyr non puoi aspettarti nulla di diverso: non chiedono il permesso di fare quello che fanno, né mostrano alcuna indulgenza per il proprio pubblico che, anzi, sembra volersi mettere esso stesso nella condizione di provare disagio. Il post-punk degli esordi è cresciuto di album in album, stratificandosi tra noise, The Fall e i Joy Division di New Dawn Fades fino a conferire al progetto un’identità riconoscibile, che oggi viene arricchita dai fiati free jazz di Jemeel Moondoc e Izaak Mills (vedi il brano Tranquilizer su tutti). In questo miscuglio di materia oscura e caos domina l’attitude nichilista di un Joe Casey che sta all’angolo della strada con un cartello tra le mani con su scritto The End is Near.

Per almeno la prima metà, il disco ti mette all’angolo, tra atmosfere claustrofobiche e mine antiuomo pronte a scoppiare da un momento all’altro. E così fa Processed by the Boys con le sue sezioni ritmiche in stile marcia su Roma che raccontano l’inesorabile (e quasi accettata) avanzata dello stato del controllo e della sorveglianza, rappresentate qui da i due paradigmi principali: le milizie cool con i tattoos of their children e i the boys delle nuove multinazionali. Ma questa aggressività cavernicola non è vuota e viene bilanciata da contenuti profetici e profondi di chi si fa grandi domande ed in cui la Fine è (di nuovo) al centro del discorso:

When the ending comes, is it gonna run
At us like a wild-eyed animal?
A foreign disease washed upon the beach
A dagger plunged from out of the shadows.

A cosmic grief beyond all comprehension
All good laid low by outside evil
Against belief, a riot in the street
A giant beast turning mountains into black holes.

E ancora di più, mentre le clave sbattono qua e là, entrano a sorpresa delle scariche noise tipicamente americane e tipicamente Protomartyr che quando arrivano sono cosi grezze che ti sembra di leccare un pistone sporco di olio e grasso (I Am You Now, Tranquillizer, The Aphorist).

In questo album psicologicamente destabilizzante, il senso di inadeguatezza generato dal processo di individualizzazione del tardo capitalismo non finisce, anche se sul finale qualcosa si disgrega ed il flusso iniziale lascia spazio a singoli brani, alcuni dei quali potentissimi, vedi 21 june (col featuring di Nandi Rose) che sembra qualcosa dei The National suonata in un vicolo della Sin City di Frank Miller e Michigan Hammers che in pratica è il nuovo inno cittadino degli scontentiAltri, invece, meramente riempitivi.

Fino a che non si arriva a Worm in Heaven, brano di addio in salsa Creep che con quell’ “I am the worm in heaven” pare richiamare addirittura versi biblici:

Ma io sono un verme e non un uomo.  

Le grandi domande lasciano spazio alla paura dell’oblio, ma anche ad uno stato di accettazione e rassegnazione mentre il mondo si sgretola intorno e tutto si perde nel rumore e nei classici versi di Casey ripetuti fino allo sfinimento.

I exist, I did
I exist, I did
I was here.

Questo è uno dei momenti forse più evocativi della discografia dei Protomartyr che con il quinto lavoro si confermano una delle band post punk antagoniste più rispettate e consistenti dell’ultimo decennio. Ma per arrivare a questo traguardo hanno dovuto scavare a lungo nel malessere, anche al posto di quelli che credono ancora di vivere il sogno americano. E oggi 10 anni e 5 album dopo, lasciano ai posteri una fine opaca dai bordi non definiti, come un paradiso senza Dio.

Tracce consigliate: Processed By The Boys, Michigan Hammers, Worm in Heaven