Non c’è due senza tre. Con una coppia di magnifici LP alle spalle e un futuro radioso illuminato dal responso di critica e di pubblico, i danesi Iceage approdano a questa nuova prova su disco che prima ancora di essere data alle stampe vedeva già un numero esorbitante di appuntamenti live in giro per il mondo, ennesimo segnale del momento aureo. Se non fosse che qualcosa è cambiato: il primo singolo da Plowing into the Field of Love ha fatto cadere sulla scrivania più di una mascella.
È successo che la band post punk con il miglior immaginario sulla piazza, aristocratico, apocalittico e nordicista (cosa che ovviamente non ha lasciato indifferente una certa stampa dalle lunghe orecchie, sempre tese per captare eventuali minacce di totalitarismo incombente) si è reinventata daccapo. The Lord’s Favorite, è bene notare, rimane l’episodio più sfacciatamente a stelle e strisce, quasi a voler fare da testa d’ariete per qualcosa che poi non arriva, forse per mettere sulle spine un pubblico che si aspettava il ritorno della band sotto il logo simil-runico nelle sue vesti già viste. Plowing… non è un album di aspiranti mandriani e pistoleri ma nasce bastardo a metà strada tra Nick Cave e il primo David Eugene Edwards (16 Horsepower e poi Woven Hand), furti intellettuali dal country bianco più sgraziato e dal blues nero più rozzo. Bastardo sì ma perfettamente coerente con se stesso, il tutto suonato con lo stesso furor teutonicus di prima, sporcandosi gli stivali con la sabbia del gothic American e senza mai far cadere nell’oblio il punk/accacì, che questa volta finisce per essere plasmato spesso in un post-punk rumoroso, capace di prendere le distanze dagli stereotipi del genere.

The Lord’s Favorite, il suddetto primo singolo, è una rivoluzione; l’hardcore moderno, ruffiano, ammiccante ha lasciato spazio ad un suono sguaiato, ebbro, la canzone è un country grezzo e suonato come fosse l’ultima cosa da fare al mondo. Il video, ambientato nei corridoi e nelle stanze in quello che sembra un motel di quart’ordine, ovviamente curatissimo in ogni dettaglio di luci e arredamento ça va sans dire, rende giustizia alla canzone e al testo fra sguardi languidi in camera, alcol che finisce più rovesciato addosso che bevuto, luci al neon e un bacio da un nerboruto e tatuato travestito proprio sul verso Come here and be gorgeous for me now. Niente male come inizio.
Secondo singolo estratto è la lugubre Forever: la voce bassa di Elias Rønnenfelt si fa strada monotona, strisciando su un insidioso tappeto musicale con il basso che regala accenti da brivido, almeno fino a quando il brano parte in lenta picchiata una, due, tre volte per scaricare il caos cieco. Quasi inutile citare le influenze più evidenti qui: new wave/dark wave a manetta per un brano che potrebbe essere sfuggito ai solchi di Substance dei Joy Division.
Glassy Eyed, Dormant and Veiled regala uno dei momenti migliori dell’album se non dell’intera carriera degli Iceage: il testo è criptico, dannato (Though I’m obsolete, I’ll scold you even in your dreams/Rise from your sleep, boy/A myriade of maladies/Incomplete identity) e catastrofico (I’ve got nations blaming me for the passings of their children/I’ve been dragging ships across dry land/To fill the hole you emptied), a tratti mormorato nel buio, a tratti declamato con rabbia. La musica, un continuo assalto di crescendo estenuanti che arrivano uno dopo l’altro, accompagnati da un’acustica strimpellata con foga nei picchi. Altrettanta è l’energia nella piccola ripresa simil country da headbanging di Abundant Living.
Le prime volgari note di basso, i rantoli aggressivi di Cimmerian Shade e poi il lento trascinarsi doloroso che guida la canzone nel suo peregrinare sono lo specchio di un titolo che è tutto un programma. Quello che scrivevo poco sopra sulla persistenza dura a morire dell’anima hardcore trova riscontro alla fine di Cimmerian Shade per quello che sembra un decollo ma è soltanto un tragico schianto negli ultimi 30 secondi.
Against the Moon è la personale interpretazione del lounge secondo Rønnenfelt & co. A rovinare completamente, per fortuna, l’atmosfera da sgangherato pianobar ci pensa il testo, narrato da una voce parlante pigra e lamentosa mentre racconta della propria incapacità di cambiare, di migliorarsi, di portare a termine qualcosa di retto. L’espressione pissing against the Moon deriva probabilmente da un quadro di Bruegel il vecchio, a sua volta derivato da un detto popolare olandese.
Arriva la titletrack a mettere la parola fine, giocando con più oscillazione che mai fra l’inizio, un breve momento di apparente pace acustica al chiasso in chiusura.

Gli Iceage del 2014 gettano l’ombra di quattro cupi, emaciati viandanti non umani su una qualche strada polverosa del sud semidesertico degli USA. E la cosa, pur ben consci di quali siano le loro origini, gli riesce straordinariamente bene; se li avesse conosciuti il Robert Rodriguez di From Dusk till Dawn, se ne sarebbe innamorato alla follia.

Tracce consigliate: The Lord’s Favorite, Glassy Eyed, Dormant and Veiled, Against the Moon