Non è facile fare quello che fa Bonobo. Il dj e produttore inglese appartiene a quella categoria di artisti che fanno sempre le stesse cose, alcuni male, altri bene. Lui è tra quelli che le fa molto bene. La sua evoluzione sta più nella forma che nella sostanza e i cambiamenti che porta nei sui progetti risiedono principalmente nei dettagli. Dettagli che sa benissimo dove inserire e come e quando mettere in risalto, senza però ricorrere a trucchetti. Non c’è distanza con chi lo ascolta, di modo che sia chi ci è sotto dai tempi di Black Sands e The North Borders, sia chi ci è arrivato più recentemente, non fa fatica a percepirli.

Nel corso della sua carriera Bonobo ci ha abituato ad un certo tipo di stile che ci risulta ormai familiare. Sonorità raffinate ed eleganti, così agevolmente riconoscibili che bastano pochi secondi di ascolto per far capire che dietro ad ogni brano, o remix o album ci sia proprio Simon Green. Anni 45, 20 anni di carriera (giorno più giorno meno) e sette album alle spalle. L’ultimo, Fragments, è facile nell’ascolto e confortevole nell’effetto, ma non per questo sciatto.

La costruzione dell’album e dei singoli brani ricalca Migration: ci sono gli archi e le parti orchestrali, il downtempo; il neo soul e il mood un po’ club pettinato e un po’ massaggio olistico. Ci sono le parti ritmate che tendono a Four Tet (ma meno infoiato) e le immancabili collaborazioni vocali che rappresentano una metà essenziale del lavoro. Parlando di featuring, sono esagerate le voci di Jamelia Woods in Tides e di Joji in From You ed è esagerato il modo in cui Bonobo le inserisce nel suo modo di interpretare l’elettronica. Rispetto al suo predecessore, però, questa varietà di elementi viene assemblata con maggiore accuratezza e a giovarne è il suono, che viene pompato benissimo (grazie alla solita produzione eccezionale), uscendo così estremamente pulito e compatto.

Quello che rende Fragments superiore al resto della sua produzione (escludendo The North Borders), non è tanto la sperimentazione che di fatto non si trova in nessun brano, quanto la capacità di mettere d’accordo linguaggi diversi e di rendere complementari elementi agli antipodi, come le pause e le ripartenze e la continua alternanza ritmica. Risultato: metti in loop e non ti stanchi.

Per comprendere questo concept bisogna però guardarlo da lontano, come il marinaio che osserva il mare dalla riva prima di partire. Da questa prospettiva, allora, quello che si vede è un album dalle molteplici oscillazioni. Come il moto ondoso, Fragments è in costante agitazione e sale e scende incessantemente, in un’ordinata successione di stati mai fuori posto. La parte più alta della cresta dell’onda, al picco dell’energia, viene raggiunta nei quattro quarti di Age of Phase e di Counterpart: brani speculari che fanno parte di una sequenza in crescendo partita dalle atmosfere ambient di Elysian e che rimandano alla tradizione UK meno dozzinale, tradendo un’insana voglia (sua e nostra) di dancefloor e di live al tramonto. Ed è in questi termini che Bonobo conferma di essere un capitano di fregata piuttosto che un improvvisato della domenica col canotto gonfiabile. Rimanendo nella metafora, uno che conosce bene il (suo) mare e le sue dinamiche.

Da lontano, o da vicino, Fragments non è un bluff. Mancano spunti ed idee innovative, ma Bonobo non ha smesso di fare bella musica e non è ancora arrivato il tempo di smettere di ascoltarlo.

Tracce consigliate: Rosewood, Closer, From You