La prima volta con i Preoccupations è stata quattro anni fa: si chiamavano ancora Viet Cong, avevano da poco pubblicato un album pazzesco elogiato dalla critica tutta e suonarono sulla spiaggia prima (e meglio) degli Iceage, in quell’isola felice delle chitarre che è il Beaches Brew. Li ritrovo quattro anni dopo in una location diversa – lo Spazio211 di Torino, che conosce bene chi almeno una volta ha bazzicato al TOdays – in un clima diverso – i 20° di Marina di Ravenna contro la nebbia sabauda di febbraio – e con un nome diverso – l’aneddoto del nome tocca ribadirlo in tutti gli articoli sui Preoccupations dal 2016 a oggi, è una specie di legge non scritta.

Cosa non è cambiata? L’attitude. Dal primo minuto i quattro canadesi di Calgary ipnotizzano tutti con la loro violenza (s)misurata, pescando a piene mani soprattutto dall’esordio (le sempreverdi Newspaper Spoons, Continental Shelf, Silhouettes), sia dall’ultimo New Material (menzione d’onore per Decompose e Antidote). Mi bastano quattro o cinque pezzi per confermare che non c’è niente da fare, è il live la dimensione ideale dei Preoccupations, sia per la voce di Matt Flagel, molto più scomposta e raw che su disco, sia ovviamente per quel superuomo di Mike Wallace  – comunque sempre a petto nudo, che sia giugno o febbraio – che picchia su quella batteria come un (precisissimo) dannato.

Zero o quasi interazione con il pubblico, ritmo più che serrato, più noise e meno new wave, i pezzi scorrono veloci fino al muro sonoro degli undici minuti della funerea Death in chiusura, che ci lasciano devastati e un po’ inebetiti a chiedere un bis che non arriverà. I Preoccupations non suonano soltanto, assaltano i propri strumenti e assaltano il proprio pubblico, che se ne sta immobile – grazie al cielo nessuno accenna un pogo – come incantato dall’omelia post-punk di Flagel.

Perchè“to live is to suffer again and again”, amen.