Quando penso a Kristian Matsson penso ad una sera d’inverno, una chiesa di Roma, un pianoforte, due chitarre, e un uomo minuto che risponde ironicamente al nome d’arte di The Tallest Man on Earth. Minuto fisicamente ma non per presenza scenica: Matsson è uno che imbraccia uno strumento alla volta e lì, solo sul palco, regala una performance intima e corale allo stesso tempo. Poi arriva il 2015, metti su Dark Bird Is Home e per il primo minuto è tutto come al solito, il solito Matsson alla chitarra acustica, familiare e rassicurante, quando gradualmente Fields of Our Home inizia ad arricchirsi di un muro di melodie solo vagamente distinguibili: synth, archi, fiati. È così che si presenta il nuovo, quarto LP di The Tallest Man, punto chiave e di svolta nella carriera di Matsson: da un lato per un carattere prettamente musicale, laddove si sentiva, dopo There’s No Leaving Now, un’allerta da deriva artistica, dall’altro questa svolta è personale, e segue quelle che sono le vicende umane dell’artista svedese – il divorzio dalla moglie Amanda Bergman e un lutto in famiglia.

I due punti cardine dell’album – autobiografia e apertura musicale – sono due narrative che nel 2015, curiosamente, hanno accomunato una buona parte del cantautorato più mainstream: Dark Bird Is Home esce dopo gli sforzi (più o meno riusciti) di ricerca musicale di Laura Marling e Mumford & Sons, e segue due album distruttivi come Vulnicura di Björk e Carrie & Lowell di Sufjan Stevens (relazioni finite per il primo e lutto per il secondo, per l’appunto).

Mentre Carrie & Lowell poteva essere letto come un romanzo che trova la propria catarsi nella minimalità degli arrangiamenti, nel caso di Dark Bird Is Home la scrittura si nasconde spesso dietro la metafora del viaggio, quasi come per ripararsi dal dolore della verità (lo stesso Matsson ha ammesso di aver cambiato parte dei testi perché sarebbe stato troppo doloroso cantarli in tour). Eppure, qua e là, quelle metafore si lasciano sopraffare da sprazzi di disperazione e paura del vuoto: in Darkness of the Dream, la paura della solitudine prende forma nei versi “I’m sure I’ll sleep when all this goes under / but now, will I sleep alone?”, mentre l’amaro presente si fa vivo in Sagres con “And this madness I suppose / gonna haunt me with the line / that I could drink until I sleep / through all scarier times”, e Matsson resta diviso tra la rassegnazione di “Honestly I’m broken down / by this emptiness I feel […] selling emptiness to strangers / is a little bit warmer than my dreams” (Little Nowhere Towns) e la nota di positività di “This is handsome life / I guess my rhythm grew / through my darker time”.

Allo stesso modo, forse per ripararsi, forse per trovare a suo modo una specie di catarsi, sono proprio i brani dai testi più drammatici a presentarsi con gli arrangiamenti più vivaci, colorati e positivi: Darkness of the Dream, Sagres, Slow Dance, Timothy e Seventeen sono confezionate con sax, viola, clarinetto, synth, percussioni e con le armonizzazioni vocali di Mike Noyce, in modi che a tratti ricordano le sonorità dei Beirut; Matsson &co. rivolgono particolare attenzione ai tappeti sonori, specie in quei brani che più si ricollegano al vecchio Tallest Man, in cui suoni dapprima quasi impercettibili si aggiungono man mano per poi esplodere, proprio come fanno in apertura con Fields of Our Home e come fanno in chiusura con l’eponima Dark Bird Is Home. Poi lì, nel mezzo, Matsson si siede pure al piano, e divide l’album in due con la bellissima Little Nowhere Towns.

Tempo fa avevo recensito un disco, Big Dark Love dei Murder by Death, in cui paragonavo la scelta di arricchire il loro folk-rock con synth e stratificazioni sonore a una festa patronale. Allora come fa The Tallest Man On Earth a fare la stessa cosa in Sagres senza rischiare di aprire per la sagra della salsiccia? Tutto sta nell’attenzione ai particolari, a quelle melodie che passano quasi inosservate e che in realtà riescono ad accompagnare la voce calda e ruvida di Matsson senza invadere laddove non è necessario farlo. Tutto questo, coronato dall’onestà del “fuck!” che chiude in agrodolce un disco così tremendamente intimo, è la formula della riuscita di Dark Bird Is Home.

Tracce consigliate: Dark Bird Is Home, Little Nowhere Towns