We’re all gonna die
We’re all gonna die
We’re all gonna die
We’re all gonna die
We’re all gonna die
We’re all gonna die
We’re all gonna die
We’re all gonna die
(Sufjan Stevens – Fourth of July)
L’unica certezza che abbiamo su questa Terra è la morte. Tutti moriremo. Il memento mori prima o poi si manifesta in ognuno di noi. Accertato e accettato questo, ciò che rimane all’uomo è la sua attitudine nei confronti di questa sorte comune, tanto imprevedibile quanto temuta. Il modo di affrontare il percorso, la vita.
“Spirit of the silence / I can hear you / But I’m afraid to be near you / And I don’t know / Where to begin” (Death With Dignity). La paura della morte è naturale, intrinseca tanto quanto è intrinseca la condizione terrena dell’essere umano. Perché vergognarsene? Perché avere paura di affermare di aver paura della fine della vita? Perché avere paura di sfogarsi, quando si perde un genitore? Cosa c’è di più naturale dell’atteggiamento umano nei confronti della morte?
Sufjan Stevens ha recentemente (dicembre 2012) perso sua madre e, sebbene lo avesse abbandonato in tenera età, sebbene non avesse uno strettissimo legame con lei, sebbene ella fosse alcolizzata, bipolare, schizofrenica, depressa, questo fatto lo ha distrutto. È stato il suo memento mori. La prima reazione è stata l’umano sconforto, la seconda è stata Carrie & Lowell.
Un disco intimo, solo chitarra acustica e qualche tastiera su cui si adagiano i sussurri di Stevens, così come fu con Elliott Smith e Nick Drake, l’espressione più sincera dei sentimenti messi in musica. Senza filtri, senza il tempo della batteria, senza derive elettroniche. Le esperienze, la vita, ci vengono sbattute in faccia con una potenza tanto schietta (“I read your text while I masturbated” – All Of Me Wants All Of You) ma allo stesso tempo delicata da rimanere senza parole.
Ciò che sconvolge ancor di più è però la descrizione delle situazioni e del dolore, sia attraverso i testi che attraverso la musica. Non c’è un mostro, un demone contro cui la lotta è vana. Non c’è autocommiserazione, debolezza. E anzi, non c’è proprio traccia di dolore. Per tutto il disco si respira un’aria di pace, serenità, naturalezza, ingenuità. È Sufjan Stevens che ci parla, uno Stevens che alza lo sguardo come sempre ha fatto in passato e di nuovo trova conforto.
Sufjan Stevens affronta la vita e la morte con l’attitudine del cristiano, e questo fatto non deve essere preso sottogamba né ignorato, men che meno in un disco chitarra e voce, un disco così intimo e personale in cui i testi rappresentano la chiave di volta. Certo ci si può lasciar trasportare dai dolci e musicali mormorii, dalle struggenti code ambient presenti alla fine dei pezzi pensando ai fatti propri, ma che senso avrebbe in un concept-album del genere? Perché perdersi il senso di frasi come “There’s no shade in the shadow of the cross” o “For my prayer has always been love / What did I do to deserve this now?/ How did this happen?” (Drawn To The Blood)? O ancora “Lord touch me with me lightning / Raise Your right hand / Tell me you want me in your life” (Blue Bucket Of Gold) e “Jesus I need you, be near, come shield me / From fossils that fall on my head / There’s only a shadow of me; in a manner of speaking I’m dead” (John My Beloved). Certo si può essere in disaccordo, ma ciò comunque non toglie che per capire a fondo il disco occorra accostarvisi con spirito quanto meno critico, e non con attitudine semplicistica.
Come detto, ci sono sicuramente più livelli di interpretazione, più livelli di “godimento” dell’opera. Quello principale per Stevens è, ed è sempre stato, il messaggio scritto, cantato, quello che mescola religione cristiana, mito greco e innumerevoli immagini ermetiche.
Non c’è però superbia, volontà di imporre il proprio modus vivendi. È tutto naturale, la descrizione di una pace conquistata anche di fronte alla morte, un racconto sincero e senza pretese, chissà mai che qualcuno ascolti queste esperienze senza chiudersi al senso ultimo, quello vero e proprio, andando, per una volta, oltre al superficiale “oh mio Dio Sufjan, la chitarrina, le lacrime”.
E allora, tornando all’opener (Death With Dignity) in maniera circolare come l’esistenza stessa, chi affronta la morte con dignità? Chi non solo è consapevole della propria finitezza, ma chi soprattutto custodisce la propria preziosissima umanità, perché “… we all know how this will end” e “Yes every road leads to an end”.
Sufjan è il nostro memento mori, ci ricorda che dobbiamo morire, sì, ma anche che non dobbiamo mai smettere di sperare.
Insomma, è tutto nelle vostre mani, ma non mentite a voi stessi.
Tracce consigliate: Death With Dignity, Blue Bucket Of Gold, Fourth Of July.