In alcuni delicatissimi casi tra arte e autoanalisi c’è un legame fortissimo e inscindibile. Ho recensito di recente l’ultimo lavoro degli Eels, senza poter fare a meno di constatare in quell’occasione, quanto la rottura del legame star male-fare musica, caratteristica imprescindibile dei primi lavori di Mr E, musica abbia inciso sulla qualità generale delle composizioni.

Dovendo affrontare Keaton Henson, i suoi lavori e il personaggio, non possiamo fare a meno di riallacciarci idealmente al commento fatto in quell’occasione. Henson, londinese, nasce come illustratore. L’anno scorso ha, incoraggiato dai suoi amici, deciso di raccogliere le due manciate di canzoni che aveva scritto per sé per farci un disco, il suo interessante esordio Dear. Sul palco c’è stato una volta sola, e, dopo un attacco di panico, ha deciso che non avrebbe mai più ripetuto l’esperienza. Le composizioni sono ovviamente da collocare in ambito cantautorale, anche se, fin dal primissimo ascolto, ci accorgiamo di non aver a che fare con il solito: pare infatti che nessun rapporto di necessità viga fra la vita di Keaton e il suo scrivere canzoni. Non c’è in lui nessuna voglia di urlare, di sfogare in maniera consapevole le sue frustrazioni o desideri. La musica di Keaton si capisce non esser fatta per il pubblico, come pure l’esecuzione: una voce sussurrata e timida, quella di uno che sta suonando a casa sua, che sta parlando fra sé e sé, inserita su linee di chitarra assolutamente discrete, mai in primo piano, tantomeno fuori luogo.

La prima metà dell’album, a partire dall’opening track Teach Me, si articola con leggerezza e semplicità, totalmente acustica. Livissime chitarre elettriche pulite, cori ampi e riverberati, la voce principale timida e profonda; gli arrangiamenti sono sempre molto scarni, i testi e l’interpretazione costituiscono i versi punti saldi dell’album. La dinamica, per quanto il contesto minimalista lo permetta, è gestita magistralmente: momenti decisamente dimessi si alternano a picchi emozionali, spesso magistralmente sostenuti da parti corali, o come in You, da sezioni d’archi. La bellissima The Best Today ci riserva la soppressa delle percussioni, che, sempre molto a luogo, si inseriscono a sottolineare i momenti più incisivi del pezzo. La seconda matà dell’album, da Kronos in poi, presenta anche sonorità non prettamente acustiche, che vedono l’inserimento di momenti di chitarra elettrica e batteria, in un mood molto vicino a Jeff Buckley. Dopo Beerkeeper arriva Sweetheart, What Have You Done To Us, un bellissimo crescendo che raggiunge toni epici (con tanto di fiati alla fine) ci guida verso la fine del disco: In the Morning riprende le atmosfere della prima parte del disco, che, con la stessa discrezione con la quale si era presentato, se ne va.

Questo Birthdays è un ottimo lavoro, anche se chiaramente forte di un appeal non universale, sicuramente però ispirato ed interessante. Cerca anche di uscire dagli stilemi del cantautorato, e, ad eccezione forse del solo brano Kronos, che risulta nel complesso poco convincente, ci riesce con discreto successo.

Bravo Keaton, se deciderai di ritentare un live noi ci saremo, e promettiamo di fare tutto il possibile per non farti prendere male.

Recommended tracks: 10 AM, Gare du Nord, Lying To You.