Il tono a metà fra l’arrabbiato e l’autoironico di “I am a woman now, can you believe it?” è un po’ la sintesi del quinto lavoro della cantautrice pop-folk Laura Marling, che a venticinque anni torna in scena con l’esperienza di una quarantenne e le insicurezze ancora ben salde di chi ha viaggiato troppo e non ha ben capito a quale posto appartenere.

Short Movie è un album di crescita, di autocoscienza ed empowerment, ma è anche un album sulla ricerca di spiritualità, sulla rassegnazione, sul passato e sul presente che è destinato a divenire passato. L’anno è il 2013: Laura Marling butta via dei brani scritti durante il tour del precedente Once I Was an Eagle, lascia Londra e va a cercare se stessa a Los Angeles. A Los Angeles ci rimane per un po’, si lascia affascinare dai suoni e dai colori caldi dell’America, viene rifiutata da un corso di poesia a New York; e allora torna a Londra, imbraccia la chitarra elettrica che si era sempre negata e scrive e produce (insieme a Matt Ingram e Dan Cox) quello che liricamente sarà forse l’album più autobiografico e più necessario che abbia creato finora, sebbene forse non il più convincente.

Il brano di apertura, Warrior, svela già la produzione elegante della Marling: il minimalismo voce-chitarra è accompagnato da un tappeto di suoni e riverberi mai invadenti, atmosferici, così come lo sono gli archi in I Feel Your Love e Walk Alone. Warrior è anche il testamento dell’album: Laura è diventata una donna; ama, ma non si lascia trascinare completamente dall’amore; ha molte domande a cui ancora dare risposta (“I’m just a horse with no name”), ma ha acquisito una sensibilità tale da affrontare queste incertezze con autoironia e distacco: “I’m taking more risks now”, ammette nella bella How Can I, mentre qualche minuto dopo si fa il verso da sola, “Who do you think you are? / Just a girl that can play guitar” (Short Movie).

Il leggero distacco nei confronti dei temi autobiografici di cui tratta svolge un po’ la funzione di introdurre la nuova Marling, quella che usa la chitarra elettrica, si concede un paio di brani decisamente più pop, un paio quasi country, canta con un inspiegabile accento americano e si cimenta nello spoken word: False Hope è un discreto singolo folk-rock, dal ritornello accattivante, sicuramente una novità nel portfolio dell’autrice, mentre Gurdjieff’s Daughter ricorda i Dire Straits di Sultans of Swing e si divide tra cantato e parlato, un parlato che si ripresenta spesso nell’album ma che fa da protagonista in Strange. E qui perdonate il cambio di registro: COSA FAI, LAURA?!? Che è ‘st’americanata? Tu, che sei figlia di un baronetto inglese, che mi pronunci “hard” e “can’t” come se fossi del Texas, quanto pensi di essere credibile?! Insomma: la Laura sperimentatrice convince sulla chitarra elettrica (soprattutto quando la usa in modo più minimale, à la Keaton Henson, come in Walk Alone), ma non troppo sul versante più ritmato e di certo non su quello country/spoken word (che a tratti puzza di Mumford & Sons, ma per fortuna si limita a pochi momenti). I veri picchi, invece, sembrano essere proprio quelli in cui la produzione si fa più minimale ed elegante, e la voce la voce più profonda: Howl e Warrior sono dei pezzi ‘notturni’, e per questo i meno ‘distaccati’.

Short Movie è un album onesto e coerente a livello lirico, ma che pecca qua e là di americanismi vari. È tuttavia un album necessario sia per la Marling persona che per la Marling artista, che stavolta osa più del solito, e non teme gli errori di percorso. È una Laura Marling che presagisce un cambiamento ben più radicale: che ne sarà del prossimo capitolo? Noi siamo curiosi, ma speriamo non sia country.

Tracce consigliate: Howl, Warrior