Se c’è una cosa che mi fa impazzire di un disco è il titolo, soprattutto quando questo dà vita a suggestioni e scenari che completano e riassumono i contenuti del disco stesso. Se c’è una cosa che mi fa impazzire di un disco è il titolo, soprattutto quando questo ti tradisce, si vende per quello che non è, lasciandoti con l’amaro in bocca. Big Dark Love è il titolo dell’ultimo, settimo album dei Murder by Death, e se è ben chiaro che di amore ce ne sia molto in tutto l’album – è il tema portante – è anche vero, e triste da ammettere, che di grande e di oscuro ci sia davvero poco.

È triste da ammettere perché l’intento c’è: il quintetto dell’Indiana, che col termine americana non descrive solo un genere ma anche un contesto e una filosofia, ci prova seriamente a mostrare il proprio eclettismo, la propria crescita artistica e la propria capacità di creare opere originali. Il problema, forse, è proprio nell’averci provato troppo, col risultato che il folk definito ‘gotico’ dei primi album qui viene sostituito da un manierismo e da una produzione così invadenti che vanno paradossalmente a neutralizzare il cuore, il nocciolo di quel che significa fare un disco folk.

Ma proseguiamo per ordine, perché Big Dark Love non è del tutto un brutto disco, quanto piuttosto un disco fatto male: i Murder by Death con questo lavoro aggiungono strumenti e stratificano sempre più il loro sound. Il brano di apertura, I Shot an Arrow, è forse quello che più esemplifica quanto sia mal riuscito questo sforzo: da un lato c’è la voce di Adam Turla, potente e profonda, che viene accompagnata dal violoncello di Sarah Balliet, che negli anni ha reso la formazione così caratteristica; dall’altro lato, però, ci sono tastiere invadenti, una produzione decisamente pop, un ritornello fin troppo orecchiabile, e poi ecco i synth, la tromba, la chitarra acustica, ed è improvvisamente festa patronale; la traccia è seguita da una Strange Eyes che pecca anch’essa di esagerazione, riuscendo però a risultare persino più banale della prima. Il livello migliora gradualmente con la title track che regala un po’ di respiro sia alla voce di Turla che a noi ascoltatori, marcando però un vizio di forma dei Murder by Death che a tratti sta loro stretto: quello dei crescendo e delle esplosioni strumentali che, soprattutto quando vengono affiancate da suoni elettronici, sembrano perdere di autenticità e rischiano di diventare appunto fini a se stesse, puramente formali. Adam Turla è dotato di una voce intensa che per qualche motivo che ci sfugge viene spesso filtrata e riverberata (Dream in Red) risultando in questi casi piatta e stucchevole.
Gli arrangiamenti barocchi vanno purtroppo anche ad attaccare il lato lirico dell’album che ha come punto focale l’amore e come suoi diretti derivati la solitudine, la natura, la morte. Sebbene inquadrato in un genere ben delimitato – niente internet, metropoli, colletti bianchi – la scrittura di Turla è coesa e pur restando ben aggrappata ai dogmi del folk riesce a cogliere con grazia tutte le sfaccettature della parola ‘amore’ (ad esempio in Last Thing). Gli arrangiamenti purtroppo, come dicevamo, invadono anche i testi, distraendo l’ascoltatore.
C’è da dire, però, che Hunted è un gran bel pezzo, di un’onestà quasi spiazzante paragonato a quel che lo precede; il brano, nel suo status di traccia finale, ricorda la recente Olden Golden dei Phantom Band.

Trovo importante evidenziare l’analogia coi Phantom Band perché, sebbene in entrambi i casi si tratti di synth-folk, nel caso di questi ultimi il processo è stato l’inverso: partiti da suoni psichedelici e sintetizzatori violenti, i Phantom Band hanno trovato profondità melancoliche nel folk, mentre per i Murder by Death la stratificazione dei suoni e l’aggiunta dell’elettronica non hanno fatto che rendere Big, Dark Love un lavoro saturo, edulcorato, e infine sterile.

Traccia consigliata: Hunted.