Se Wilder Mind fosse stato il primo degli album dei Mumford & Sons -probabilmente- non saremmo qui a recensirli, né ad odiarli, o, se preferite, ad amarli. Ma questo non è, bensì è la conclusione del loro primo lustro di dominio della scena rock. Ok, “rock”. Ma è anche una svolta, coraggiosa se vogliamo. Mumford e Figli abbadonano in toto la posa di novelli poeti bucolici che tanta fortuna aveva portato, in un’epoca in cui il mondo sentiva la disperata necessità di riscoprire la vivacità del ritorno alla terra. A Londra. Volendo essere dogmatici, il banjo dovrebbe risultare simpatico solo se messo nelle mani di jazzisti o di alcolizzati dell’ Alabama, dunque ben venga il nuovo corso. Munte le vacche e dimesse le bretelle, quali panni vestiranno ora i Nostri? Quelli logori dei Coldplay, vecchi di un decennio buono.

A ben guardare il cambiamento è solo apparente, certo ora ci sono chitarre elettriche e batteria, ma Wilder Mind rimane un ennesimo ingranaggio di quest’ingegneristica macchina da inni da stadio, perseguendo dall’inizio alla fine il medesimo schema: un eterno effetto Fix You, quell’incessante ed incontenibile progressione del momentum della canzone che poi esplode nel suo climax. La formula funziona, fila liscia, e trovandosi ad ascoltare le 12 tracce per più di una volta anche i più reticenti si ritroveranno a canticchiare. Il tutto è coadiuvato dalle solite liriche a cuore aperto, forzatamente ingenue quanto stucchevoli. Di nuovo, alla voce pro, c’è che il tutto suona meno barocco che in passato, la pomposa magniloquenza di Marcus Mumford sceglie dei toni meno esasperati ed esasperanti. Di contro c’è la sicura monotonia e banalità dell’assemblaggio che a tratti ci trasfigura in un loop à la People help the people senza via d’uscita, calandoci in quella straziante e permanente sensazione di trovarsi aggrappati sul ciglio di un burrone a gridare addio prima della caduta.

A conti fatti è di nuovo il sapore di stantio a dominare, e d’altronde tutto questo era ampiamente pronosticabile, ma rimane comunque il dolce retrogusto della promessa di una nuova alba, anzi, di un tramonto: quello dell’ondata indie-non-indie-folk-non-folk-rock-on-the-pop-clap-&-stomp, a cui viene inferta la ferita dell’abdicazione dei loro più celebri e discussi pionieri.

Traccia consigliata: Snake Eyes