MUMFORD AND SONS
BABEL – Island/Cooperative Music (CD)

“Babel” è il secondo album in studio dei Mumford and Sons, folk band della West London capitanata da Marcus Mumford che sta spopolando nelle charts di tutto il mondo. Sì, cazzo, un gruppo di contadini sfigati col banjo e la camicia di Michele Misseri è la sorpresa che vi spunta fuori nelle classifiche tra i niggaz, le troione e le pedoporno Disney, anche negli USA.

Ok, ma come è riuscita una band del genere a finire nell’Olimpo del commercio discografico intercontinentale, dopo un disco d’esordio come “Sigh No More” che suonava carino sì, ma che più campagnolo non si può? Come hanno fatto degli agricoltori, dei braccianti, dei simpatici zappatori dell’indie folk a fare un sacco di soldi tipo gli U2 e a comprarsi il trattore della Lamborghini nuovo di zecca?

Cercherò di spiegarvelo: di solito chi vende moltissimo nell’ambito della musica indipendente o presunta tale,  è perché o ha fatto un discone della madonna che sfonda i limiti dell’underground e piace anche al cliente mainstream (ma è molto raro), oppure è perché ha fatto un disco molto paraculo.

Per quanto riguarda i Mumford, non siamo assolutamente nel primo dei due casi.

“Babel” suona praticamente identico a “Sigh No More”, e ciò non significa che suoni di merda: anzi, all’inizio dei disco il banjo e la chitarra sono anche simpatici e carini. Il vero problema del disco è che le tracce sono tutte uguali: intro acustico tranquillo, melodie molto simili tra loro e spesso melense, crescendo con cori e banjo che sferraglia in sottofondo, sempre allo stesso modo. Per non parlare dei testi, che definire banali e trascurabili è riduttivo. Tra i brani della tracklist ho preferito la title-track “Babel”, il singolo “I Will Wait” e l’acustica e intima “Reminder”, ma devo al tempo stesso riconoscere che scegliendone altre a caso non sarebbe cambiato assolutamente niente: il disco è, secondo me, completamente VUOTO, privo di qualsiasi emotività o espressività, è monotono e si basa su semplici melodie fatte apposta per vendere, che al primo ascolto possono risultare piacevoli ma che annoiano più rapidamente di un porno giapponese censurato coi quadratini.

“Babel” è un disco che soffre di una sindrome opposta a “The 2nd Law” dei Muse: mentre quello è ipertamarro, prolisso e camaleontico fino alla demenza, questo è ripetitivo, vuoto e noioso all’inverosimile, tanto da far sembrare i Mumford dei Fleet Foxes dopo la lobotomia, o peggio, un prodotto commerciale preconfezionato, che verrà acquistato, forse, da nuovi ascoltatori-mostri, creature temibili al pari dei muser che eleveranno i Mumford a massimi esponenti del folk internazionale. Noi speriamo invece che “Babel” rimanga un caso isolato perché è proprio un disco di merda.