“You’ve been at it this whole time, like, I have one album

Ho riso molto quando, durante una videochiamata in quarantena con Hayley Williams dei Paramore, Phoebe Bridgers ha detto questa frase, divertita e amareggiata per il fatto che la Williams – a trentun anni – abbia già una carriera più che decennale alle spalle mentre lei, che quest’anno ne farà ventisei, ha pubblicato praticamente un solo album.

Ho riso perché in realtà dall’uscita del suo primo album Stranger in The Alps nel 2017 la losangelina Phoebe Bridgers non ha mollato la presa nemmeno un secondo: il 2018 è stato l’anno del progetto boygenius (riuscitissimo, uno dei pochi super-gruppi non nati per noia) insieme alle amiche e colleghe di feels Lucy Dacus e Julien Baker, mentre il 2019 l’ha vista impegnata con i Better Oblivion Community Center, meravigliosa creatura condivisa con Conor Oberst, frontman dei Bright Eyes – con cui aveva già duettato in Would You Rather. Per finire sono arrivati il singolo con Matt Berninger dei National e una serie infinita di collaborazioni nei nuovi album dei The 1975Christian Lee Hutson, Perfume Genius, Ethan Gruska e della stessa Hayley Williams. Insomma, se è vero che la Phoebe Bridgers solista ha pubblicato solo un album è anche vero che se continua così potrà togliere lo scettro di artista più prolifico a Ty Segall.

Progetti e progettini che hanno ricevuto accoglienza positiva praticamente ovunque, e proprio per questo l’hype per il seguito di Stranger in the Alps è stato fin da subito molto alto.

Attesa ripagata, perché se Punisher non svia dal sentiero tracciato da Stranger in the Alps (sue le parole “I get questions like, ‘How do you feel about such a radical departure?’ and I’m like, ‘What are you talking about?!’”), prende tutte le caratteristiche che ce ne avevano fatto innamorare e le amplifica, le impreziosisce e le migliora: l’emotività sparata in faccia, le atmosfere stordite, i versi evocativi e surreali (giardini che nascono al posto di skinhead dispersi in Garden Song) mischiati a momenti di ironia glaciale (come l’odio da millennial per il rock™ à la Eric Clapton in Moon Song). Non rimarrà stupito da questo connubio musica triste/personalità divertente chi segue Phoebe su Twitter o Instagram, dove offre continui sprazzi di comicità dark-pop disorientante, come una memer navigata, e fa ottima autoironia sulla categoria umana dei cantautori tristi, a cui fieramente dichiara di appartenere.

Stranger in the Alps non è stato un disco particolarmente coraggioso o sperimentale: voce e chitarra acustica a creare un pugno di canzoni folk e melodie malinconiche che gravitavano intorno agli effetti dell’amore con la profondità e schiettezza dei grandi. Con Punisher la musica della Bridgers continua a non essere rivoluzionaria, anche se aumentano sia gli strumenti coinvolti – chitarre e tastiere, ma anche batteria e ottoni (la chiusura caotica di I Know The End), banjo e violini (il country-folk di Graceland Too, con la partecipazione delle boygenius), trombe e clarinetti (Savior Complex) – sia i momenti più ritmati à la Motion Sickness (l’indie pop dei singoli Kyoto I See You). Stranger in the Alps però ha funzionato perché ha saputo toccare le corde emotive di tutti grazie ad una voce immediatamente iconica e a melodie semplici e letali come potenti sedativi. E Punisher sulla lunga distanza funziona ancora meglio; non tanto grazie ai suoi pur ottimi momenti più catchy, ma perché ha reso perfetti quelli più effettati, sporchi, nebulosi e decadenti, in cui il timbro di Phoebe può infilarsi come una lama in un magma musicale torbido: dalla devastante piano ballad Punisher all’atmosfera irreale di Savior Complex fino alla straziante Moon Song.

Se è ormai assodato che Elliott Smith sia stato per Phoebe più importante dei Beatles (“Everyone knows you’re the way to my heart“, confessa candidamente in Punisher, pezzo dedicato proprio al cantautore di Los Angeles), ascoltando il disco però più che Elliott Smith vengono in mente Bright Eyes (I Know The End, per la prima metà una spoglia nenia triste e per la seconda una chiara invettiva contro l’America First di Trump, è la versione bridgersiana di Road To Joy), The National (Chinese Satellite potrebbe essere uscita direttamente da Boxer), Sufjan Stevens e Big Thief. C’è molta affinità infatti sia con Matt Berninger, anche lui maestro nella scrittura di canzoni suggestive oltre che narrative, che combinano intelligenza, dark humor e una sensibilità fuori dal normale, sia con Adrianne Lenker, altra musicista con una voce e un modo unici di leggere il mondo e per questo capace di penetrare istantaneamente sotto pelle.

La Phoebe di Punisher fa un ulteriore passo avanti, riuscendo appena al secondo album a fare la cosa forse più difficile per un artista: crearsi un sound, un tocco, uno stile e una personalità immediatamente riconoscibile. É chiaro che da adesso in poi nessuno potrà più permettersi di dire: who is phoebe fucking bridgers?

Tracce consigliate: Punisher, Moon Song, Kyoto, Garden Song