Oggi vi aggiorniamo con qualche recensione breve sugli ultimi album interessanti usciti recentemente.

Sharon Van Etten – Remind Me Tomorrow

Break Me, I Love You But I’m Lost, Your Love Is Killing Me. Sarebbero sufficienti una manciata di titoli di Are We There per inquadrare la Sharon Van Etten di cinque anni fa, che ha avuto la spregiudicatezza di raccontare a voce alta una storia sbagliata e la propria infelicità. E dice una bugia bella e buona chi non ha mai cercato nelle sue canzoni una risposta alle proprie, di storie sbagliate e di infelicità. Cinque anni dopo, Remind Me Tomorrow riprende proprio da dove ci eravamo lasciati, e inizia con un pezzo, I Told You Everything, che dice più o meno così: Ti ho raccontato tutto dentro un bar, mi hai tenuto la mano e abbiamo pianto insieme”. In cinque anni Sharon Van Etten si è spurgata di un passato importante, si è iscritta all’università, ha iniziato una relazione con quello che è anche il suo manager, è diventata madre, ha fatto l’attrice. Ma soprattutto, ha messo un po’ da parte la chitarra. A Vulture ha detto che “è stato grandioso arrivare in studio e fare un po’ la PJ Harvey della situazione, sbattendo il caffè e cantando soltanto”. Inutile dilungarsi sui tecnicismi, sull’importanza dei synth o sui rimandi sonori che scavano tanto in USA quanto in UKbentornata Sharon, Remind Me Tomorrow ha la freschezza di un nuovo inizio e la maturità dei grandi.

Voto: 8.2 – Ilaria Procopio

Toro Y Moi – Outer Peace

Descritto come “una risposta alla cultura usa e getta di questo periodo storico“, il nuovo album di Toro Y Moi decide invece di prendersi poco sul serio, cambiando ancora una volta rotta rispetto alle sue ultime uscite. Sono praticamente 10 anni che Chaz Bundick è atterrato nelle nostre vite, 10 anni in cui l’abbiamo visto cambiare diverse volte pelle: ecco, stavolta gli tocca aumentare i bpm, giocare con la dance, i synth gommosi e quel gusto un po’ retrò, magari ispirato da Neon Indian, forse l’artista più affine a questa nuova reincarnazione di Toro Y Moi. Outer Peace scorre veloce e regala soddisfazioni, sia che decidiamo di ballare con Ordinary Pleasure e Who Am I, sia che ci abbandoniamo ai lenti Miss Me e New House, senza contare il singolone Freelance che ci ha già tenuti compagnia per mesi e si è guadagnato a forza l’appellativo di tormentone invernale. Il suo maggior difetto è proprio questa sua leggerezza, che da una parte lo rende un ascolto per niente stancante e che si presta volentieri a continui repeat, ma dall’altra rischia di vederlo accantonato presto come dischetto di poca importanza. Non fate questo errore, era da tanto che non incontravamo un Toro Y Moi così in forma.

Voto: 7.3 – Sebastiano Orgnacco

Deerhunter – Why Hasn’t Everything Already Disappeared?

Se l’ormai lunga carriera dei Deerhunter ci ha insegnato qualcosa, soprattutto negli ultimi anni, è che si può calcare il territorio dell’accessibilità senza negare o semplificare la complessità della scrittura, dei temi o degli arrangiamenti. Se Fading Frontier rappresentava la risposta di Bradford Cox ad un periodo estremamente negativo, Why Hasn’t Everything Already Disappeared? ne diventa la controparte meno ottimista e più politica, pur continuando ad aspirare ad un’immediatezza più pop, soprattutto nella prima parte. Co-prodotto con Cate Le Bon, il disco si arricchisce di strumenti e arrangiamenti idiosincratici in brani che preservano il ritmo e la cadenza tipici dei Deerhunter, ma in una versione fresca e rinnovata (Element, Futurism, Plains) in felice contrapposizione con i momenti più oscuri e sperimentali e quelli di ispirazione orientale (Nocturne, Détournement, Tarnung). A questo punto della loro carriera i Deerhunter possono muoversi come vogliono, ma è la loro continua ricerca del nuovo a porli tra le band più importanti di questi anni.

Voto: 7.4 – Claudia Viggiano

Better Oblivion Community Center – Better Oblivion Community Center

Better Oblivion Cumminity Center, più che il nome di una band, è un’eloquente dichiarazione d’intenti, e non è un caso che dietro a tale moniker si nascondano Phoebe Bridgers Conor Oberst. Phoebe, classe 1994, avevamo imparato ad apprezzarla grazie al suo debutto Stranger In The Alps (2017), che già lasciava intravedere più che promettenti doti cantautorali, per poi amarla quando queste sono sbocciate definitivamente nel progetto boygenius (il miglior super-gruppo degli ultimi anni). Conor Oberst, invece, è quel Conor Oberst, quello dei Bright Eyes, quello che non ha bisogno di presentazioni. Il disco collaborativo dei due è proprio quel che potete immaginarvi: eccelso songwriting al servizio delle emozioni più strazianti che il genere umano possa provare (solitudine, alienazione, pene d’amore), ma sempre narrato con una speranza latente e adagiato su un indie-folk caldo, corposo e mai troppo prevedibile. Il livello è sempre alto, molto alto, ma l’apice è raggiunto quando il talento dei due si amalgama per generare, in maniera complementare, qualcosa di totalmente nuovo e inaspettato: le armonizzazioni vocali di Sleepwalkin’Chesapeake Forest Lawn, il finale rabbioso di Big Black Heart, gli inaspettati synth arpeggiati di quella perla che è Exception To The Rule. Soffrire è cosa buona e giusta, ma soffrire tutti insieme è un po’ meglio.

Voto: 7.5 – Simone Zagari

The Twilight Sad – It Won/t Be Like This All the Time

Dopo un quarto album sensazionale che li aveva portati in un lungo tour con i Cure, gli scozzesi The Twilight Sad tornano con un disco più torbido, di cui è manifesto il gioco di luci e ombre del titolo: It Won/t Be Like This All the Time, nel senso che il buio incombe sempre nei momenti più felici, ma anche che non può piovere per sempre e rimaniamo costantemente in attesa di tempi migliori. I testi sono più diretti, tangibili sono le domande (“Would you throw me out into the cold?”, “Why did you leave in the night?”) così come lo sono la sofferenza e il rimpianto che impregnano il tutto (presente ma silente il tema della morte dell’amico Scott Hutchison). La risposta sul piano musicale è l’intensificazione dei synth di ispirazione kraut e new wave (The Arbor) ma anche una ritrovata aggressività nei muri di suono del chitarrista e produttore Andy MacFarlane (Shooting Dennis Hopper Shooting) e un’urgenza quasi fisica nella voce di James Graham (Vtr). I Twilight Sad sono tra quelle band su cui viene facile apporre un’etichetta, ma che riescono a sfuggire alla stagnazione e a ritrovarsi, rinnovandosi, sempre.

Voto: 7.8 – Claudia Viggiano

Lost Under Heaven – Love Hates What You Become

Qualche tempo fa lamentavo un generale distacco disinteressato delle “chitarre” dal panorama socio-politico contemporaneo. Questo non è sicuramente un problema per i Lost Under Heaven considerando che il frontman del duo, Ellery James Roberts, sin dai tempi dei WU LYF (e se questa sigla non vi dice nulla, fate una ricerca) si è erto a cantore di ribellioni al capitalismo improntate sul sentimento di rivalsa generazionale. E se il primo capitolo dei LUH aveva sorpreso per potenza di fuoco, soprattutto nelle inaspettate quanto schizofreniche derive elettroniche sognanti (gestite da The Haxan Cloak), la seconda parte di questa nuova storia racconta l’ira e le speranze ormai disincantate della generazione di cui sopra (che chiama Thor Harris degli Swans alle batterie). Come sempre non mancano le spinte aggressive (Come) né i cori laceranti di chi darebbe anche le proprie corde vocali per un mondo più giusto (Post Millennial Tension, The Breath Of Light, For The Wild), né tantomeno tracce più posate tra sentori No Wave (Savage Messiah), drone (Black Sun Rising) e crooner (Love Hates What You Become). Pur nella buona fattura del progetto e nella sua lodevole ragion d’essere (che dovrebbe ricevere più attenzione di quanta effettivamente ne ottenga), quel che manca al lavoro è il destabilizzante effetto sorpresa del passato, quelle sferzate “sperimentali” sacrificate al servizio di un sound troppo spesso – e inaspettatamente – bloccato nella propria cifra stilistica. Per ribaltare questo mondo occorre osare di più, ma i LUH restano pur sempre un ottimo punto da cui partire.

Voto:– Simone Zagari

Pedro the Lion – Phoenix

Quella dei Pedro the Lion sembra appartenere alla scia delle reunion di band emo: in realtà, dopo una carriera solista di tredici anni, David Bazan ha solo deciso di riprendersi il nome perché – come dice lui stesso a NPR – “I’ve made music under many brand names. It was a dumb idea”. Phoenix abbraccia lo slowcore e l’emo in un connubio indie rock fatto di chitarre pulite e di ritmi rischiarati da una voce calda, limpida, di quelle che riescono al meglio a descrivere la nostalgia. Una nostalgia che Bazan sa anche raccontare, delicatamente, evocando storie di rimpianti e piccoli momenti di felicità e riportandoli al presente, come nel racconto commovente della sua prima bicicletta, quella gialla che compare in Yellow Bike e ritornerà ancora più avanti nel disco: “Out on our street when my dad let go of the seat/ I rode off and down the road / Somehow I never went back home”. Phoenix è un album per chi ama il cantautorato elegante ma senza protagonisti, la musica melanconica ma non triste.

Voto: 7.2 – Claudia Viggiano