Fine agosto, percorro in treno la spina dorsale dell’Italia con l’Adriatico alla mia destra, in compagnia di signore attempate che tornano al nord con ancora indosso i colori sgargianti delle mise da villeggiatura.
Per gli irriducibili frequentatori di festival il TOdays è il migliore dei saluti all’estate. Con buona dose di masochismo, mi infilo le cuffie e metto su i Goat, perchè tra un paio di giorni la bella stagione finirà anche per me e domenica sarò costretta a rinunciare a godermi la serata che concluderà la kermesse, che li vedrà a Torino insieme a Local Natives e molti altri.
La cornice del TOdays è la Barriera di Milano, immediata periferia nord del capoluogo piemontese, dove a Spazio 211, consueto angolo in cui si consuma la musica nazionale e internazionale, si uniscono le linee nette del Museo Ettore Fico e i padiglioni dell’ex INCET, complesso in fase di recupero che mantiene memoria della vocazione industriale con cui nacque il quartiere. Coniugare opposti sembra essere la mission dell’edizione 2016, la seconda per il festival sabaudo. Distribuire equamente umori ed energie tra pezzi di storia, sperimentazione, tendenze del momento e realtà locali è di certo un obiettivo ambizioso ma a conti fatti raggiunto, perchè a passeggiare nel tempo tra il presente modaiolo de I Cani, il futuro di progetti come Double Vision e il passato prossimo di The Jesus and Mary Chain nell’arco della stessa serata ce la siamo passata decisamente bene.
Le giornate di venerdì e sabato sono entrambe concepite in due step. Si inizia con la luce del giorno davanti al palco allestito sul retro di Spazio211 con tre performance ad introdurre un headliner e ci si sposta poi all’ex INCET, dove godersi un opening act e l’ospite d’onore del giorno, seguito poi dai dj set in collaborazione col Varvara Festival.
Nel mezzo, un evento collaterale al Museo, aperto a tutti e con necessità di prenotazione a partire da mezz’ora prima dell’inizio, cosa che rende difficile ai possessori di biglietto partecipare senza perdersi la fine dell’ultimo act allo Spazio. Ce ne facciamo una ragione il venerdì sera se per restare a sculettare con gli M83 si tratta di rinunciare a Calcutta (anche se la formula con accompagnamento di un coro gospel ha destato qualche curiosità). Ci spiace un po’ di più il sabato, quando termina il live dei Jesus and Mary Chain e sappiamo già che non riusciremo ad assistere alla performance di Atom™ e Robyn Fox alias Double Vision.
Gli artisti torinesi nella line up del venerdì se la cavano egregiamente accanto ai nomi altisonanti e si rivelano scelte estremamente adeguate a instaurare il mood migliore per introdurli, come i Niagara a inaugurare l’escalation sintetica della scaletta di Spazio211 e Paolo Spaccamonti con la solennità magnetica delle sue composizioni un attimo prima di veder comparire sul palco dell’INCET l’attesissimo John Carpenter.
Dopo il set del duo elettro che attizza il tramonto con i pezzi del recente Hyperocean tonificati dalla presenza on stage della batteria, un preludio strumentale straniante annuncia l’ingresso di Iosonouncane a dar prova anche in versione live dell’ormai accertata maestria nell’innestare tradizione e avanguardia, equamente sfoggiata negli episodi più alienanti di DIE e in quelli più accessibili come Stormi.
Il terreno è pronto per accogliere Anthony Gonzalez e i suoi, che immersi nel rosa bubblegum delle luci sul palco dichiarano definitivamente passata ogni infatuazione shoegaze e dream pop. Dopo Junk non c’è più spazio nella scaletta dei live targati M83 per parentesi come la struggente Wait, l’imperativo è contorcersi all’unisono sullo sfavillante sound trafugato agli anni ’80, un impasto furbissimo che su disco ci ha lasciati forse un po’ interdetti ma che dal vivo funziona innegabilmente.
La folla si sposta compatta verso l’ex INCET, a pochi minuti a piedi. Dopo le note di Spaccamonti, eccoci finalmente al cospetto di Carpenter e soci (di tutto rispetto). L’età e la posizione del Nostro dietro le macchine non permettono grandi istrionismi sul palco, ma non per questo il Maestro non interagisce con il pubblico fra un brano e l’altro. La scaletta offre grande spazio ai brani tratti da quarant’anni di colonne sonore, nonostante un album di inediti appena uscito, Lost Themes II. Accompagnati dalle immagini dei film proiettate alle spalle della band, si passa agevolmente dall’assedio claustrofobico di Distretto 13 all’azione ai limiti del demenziale di Grosso guaio a Chinatown, passando per le paranoie fra le nevi dell’Antartide de La Cosa. Pubblico, vale la pena notarlo, costantemente in visibilio.
Il sabato inizia con umore diverso, votato ai dettami del rock, che ognuno degli artisti che si esibiranno sul palco di Spazio211 declinerà a suo modo. Aprono le danze gli Stearica, storica formazione torinese fresca dell’ultimo album uscito lo scorso anno sotto l’egida della londinese Monotreme Records. Drumming massiccio e distorsioni squarciano l’inizio di una serata che avrà come ingrediente base l’intramontabile formula basso-batteria-chitarra. I romani Giuda aggiungono abbondanti dosi di energetico blues, per poi lasciar spazio a Francesco Motta e compagni.
Col Motta in versione live non c’è il rischio di un calo di tensione: mentre si dimena sul palco, il cantautore snocciola i pezzi de La Fine dei Vent’Anni riarrangiati senza troppi stravolgimenti ma dipanati in efficaci parentesi strumentali, col pubblico a intonarne i ritornelli, come si conviene quando il pop lascia il segno. Si congeda introducendo con una certa dose di emozione i prossimi in programma, forse i più attesi di questa edizione.
I fratelli Reid si fanno attendere parecchio, e una volta calcato lo stage l’inizio della performance è all’insegna dei problemi tecnici e del disappunto di Jim tutt’altro che dissimulato, che risolve drasticamente la cosa lanciando via gli auricolari e facendone a meno per tutto il concerto. Se non si è avuto modo di incontrarli prima d’oggi, nel 2016 quello dei The Jesus and Mary Chain è un live da prendere con la consapevolezza che gli anni ’80 sono ormai andati, e con loro le leggendarie risse sul palco davanti a un pubblico indemoniato. Cercando di non far troppo caso alla compostezza di Reid che sorseggia acqua liscia tra un pezzo e l’altro, ci si gode la suggestione delle luci basse a incorniciare un pezzo di storia. Reduci dal tour che ha celebrato il trentennale di Psychocandy, stasera invece gli scozzesi pescano da tutta la discografia, accontentando tutti i palati con una carrellata sugli imprescindibili, da April Skies a Happy When It Rains, passando per Darklands e l’immancabile Just Like Honey.
Dopo la parentesi nostalgica, corriamo all’INCET in cerca di adrenalina. I synth piacioni de I Cani conquistano anche Torino e riequilibrano il mood verso il faceto, ‘che è sabato e c’è gran voglia di sculettare, e il massiccio allestimento del palco per i Soulwax lascia ben sperare. Ben tre batterie ad attorniare l’armamentario di David e Stephen Dewaele: gli eclettici fratelli ripropongono in chiave disco jam le peripezie compositive degli ultimi quindici anni, tra i brani più elettrizzanti dell’ultimo lavoro per la colonna sonora di Belgica e i frangenti più collaudati come Krack e NY Excuse in chiusura, rimodellati sulle potenzialità del mastodontico set che sembra un ring sul quale i percussionisti si sfidano all’ultimo sangue. Impossibile assistere senza venire letteralmente rapiti dai ritmi spasmodici.
Si torna a casa sazi, che è esattamente la sensazione che ci si aspetta da una rassegna ricca come il TOdays. Un’ottima seconda prova per questo festival di fine estate, che anche in virtù della posizione geografica ha tutte le carte in regola per diventare un importante appuntamento europeo.
Foto di Alessandro Previdi