Die è il nuovo disco di Iosonouncane, nome d’arte del sardo Jacopo Incani. Nell’opera prima La macarena su Roma, come si può intuire dal titolo, Iosonouncane aveva creato un disco canzonatorio e insieme scanzonato nella voce e nelle musiche. I testi pungenti e la voce acuta si insinuavano nella realtà circostante; ci ballavano, c’era qualcosa di circense, carnascialesco e insieme nevrotico. Son passati quattro anni di lavoro e raccolta, e Die è completamente diverso. Iosonouncane non s’insinua più; crea piuttosto un mondo intorno a sé, denso, immaginario, lontano, della lontananza che hanno i luoghi in cui ci si può immergere senza neanche conoscerli, al quale ognuno da un proprio significato. È un disco geografico, descrittivo di un mondo che non si capisce mai se sia interno o esterno.
L’autore ha affermato che il concept alla base di Die è quello di un uomo solo partito per mare che ha paura di morire, e una donna che lo aspetta con la paura di non vederlo più tornare. “Die” in sardo significa giorno, e la Sardegna è presente già anche nel nome della traccia di apertura Tanca (l’appezzamento di terreno). Die è stato peraltro composto e impresso per la maggior parte in Sardegna, con l’apporto di circa 15 persone che hanno registrato i vari strumenti per Iosonouncane, tra i quali Alek Hidell e Paolo Angeli. Il disco è una suite continua di 38 minuti divisa in sei tracce. Il testo è un’unica poesia lunghissima, ermetica e simbolistica; la forma canzone ne esce completamente stravolta, disintegrata. Si racconta invero poco la storia dei due protagonisti; personaggi principali sono invece i riferimenti fisici al paesaggio: rive, sole, scogli, pietra, falce, sale, scava, le cime bruciate, il cielo svuotato, ancora il sole e le rive, le secche, terra impastata, lo scirocco, le prore. Tutto suona primordiale, selvaggio, le metafore sono quasi mitiche e non c’è presenza di modernità nei testi: tutto cozza magnificamente con i suoni elettronici. Per spiegare bene questa sintesi basta l’inizio della già citata Tanca, prima traccia del giorno di Iosonouncane: i suoni campionati si sovrappongono alle urla della pastorizia, mentre l’oscillazione del coro bassissimo dei tenori si confonde con quelle più sintetiche che poi domineranno il pezzo.
La voce in questo lavoro ha qualcosa di cantautorale; sarà l’anno che ci ha resi ipersensibili, ma la modulazione melodica del canto – già nella fantastica Stormi – sembra molto battistiana, che lo vogliamo o meno. La produzione densa, i suoni ricchi e veri che sanno di una produzione importante si uniscono a quelli campionati, filtrati, mandati in loop, a dei bassi subdoli che cambiano tutta l’armonia del pezzo. Il consiglio è quello di ascoltare Die con delle buone cuffie o si rischia di perdersi questa densità meticolosa. Il genere, si capisce, non è definibile: un cantautorato elettronico con striature di prog è la brutta etichetta che più si potrebbe applicare.
Ad esempio si esce da Buio, la terza traccia (quel ride pulsante ricorda delle cicale notturne, ma forse mi son fatto suggestionare dal paesaggio), e sembra che si scollini, e ancora serve un’indicazione geografica più che atmosferica per spiegare come davvero pare di aver raggiunto un momento meno claustrofobico, cioè l’inizio della risoluzione che è Carne («Dopo il coro/sulla scena splende il sole», inizia così, mentre Buio era finito con un altro coro di tenori appunto). Ecco, Carne è un pezzo prog con tutti i crismi: ricorda il meglio fatto dai Museo Rosenbach, però con i synthoni e gli ottoni. Dopo viene il Paesaggio, il pezzo più breve dell’album, che tra archi verdeniani sintetici (e anche, ancora, fiati, chitarra acustica, voci campionate, clap che sembrano lontanissimi – gli stessi che all’inizio del disco sembrano fermare il tempo in Tanca – il giorno è ciclico) ci accompagna verso il finale percussivo di Mandria nel quale, tra altri tenori e voci della pastorizia, Die si chiude così come si è aperto, ancora ciclicità: con il sole (parola che ricorre 34 volte in tutto il disco). Il tutto in un pezzo elettronico ambizioso, che si apre e si chiude alternando beat claustrofobici e spiragli di luce.
Die è un disco profondamente sardo non solo per l’origine, per i tenores, per i suoni granitici e profondi. Si percepisce un’abnegazione totale di Iosonouncane nella lavorazione di Die che ha permesso questo piccolo gioiellino. Il fatto è che ogni cosa fatta bene – un disco, come una foto o una sedia – parla necessariamente del proprio autore; in Die viene fuori Iosonouncane traccia per traccia, da ogni verso o suono: prodigarsi nel raccontare la storia di altri (il lui naufrago, la lei che aspetta) e finire l’opera con la sorpresa di aver creato un autoritratto di trentotto minuti. Alle volte si utilizza la parola maturità, nella musica, per indicare una semplice crescita; in Die la maturità è palpabile, l’autocoscienza è totale, i mezzi sono utilizzati al massimo e sotto questo punto di vista si può parlare di un piccolo capolavoro. E ciclicamente, come il giorno, ci si ritrova a schiacciare play per sentire Die ancora una volta.