Che la politica americana oltre ad essere avvincente come una serie tv sia un riflesso nitido del grado di civiltà dell’Occidente è cosa nota e incontestabile. Al netto delle considerazioni strettamente politiche, negli Stati Uniti d’America del 2016 a cavallo tra il primo Presidente di colore e la concreta possibilità che una donna faccia il suo ingresso alla Casa Bianca, sembrerebbe andare tutto a gonfie vele in direzione delle pari opportunità. La storia insegna però che tra i traguardi in fatto di civiltà e la civiltà vera e quotidiana c’è sempre un grosso scarto, e d’altronde per placare ogni entusiasmo positivista basta ricordare chi è l’altro candidato alla successione. Il preambolo risponde alla domanda più spontanea da porsi davanti al nuovo album di Solange: sì, nella civilissima America di oggi un disco che parla di disparità di genere e razza ha ancora molto senso.
“It’s such beauty in black people, and it really saddens me when we’re not allowed to express that pride in being black, and that if you do, then it’s considered anti-white. No! You’re just pro-black. And that’s okay. The two don’t go together.” Le parole di Tina Lawson in uno dei numerosi spoken che intervallano i brani di A Seat at the Table sono un buon compendio degli intenti che devono aver mosso la figlia Solange nel confezionare il suo quarto lavoro in studio.
La compiutezza con cui il disco si presenta è frutto di una evoluzione lunga, che inizia subito dopo Sol-Angel and the Hadley St. Dreams del 2008 ma arriva in studio solo nel 2013, un percorso che si prende tutto il tempo di cui ha bisogno e di cui la cantautrice tiene a raccontare i passi: lo fa con un videoclip di frammenti girati tra Long Island e la Louisiana, jam session e scorci informali che riflettono la genuinità del processo compositivo di Solange, dalla genesi delle melodie al piano fino all’apporto delle sperimentazioni intraprese coi suoi sodali, tra i quali Troy Johnson, Raymond Angry, Questlove e Sampha.
Lo sdegno nella voce della più piccola di casa Knowles ha la grazia dell’eloquenza e la caparbietà di un sit-in. Spesso nelle retrovie di produzioni più celebri (tra cui anche la musica della sorella Beyoncé), per questa storia Solange sceglie di usare la prima persona singolare. In poco più di cinquanta minuti di musica sono molti gli interludi parlati oltre a quello della madre Tina, essenziali a concretizzare il concept del disco, sin dal titolo dichiaratamente intriso di cultura black: la trasposizione in musica della consuetudine familiare di riunirsi intorno a un tavolo a fine giornata, per condividerne i frutti e raccontarsi l’un l’altro. Solange estende all’esterno l’invito a prender posto e ad ascoltare, e così dal particolare – una donna afroamericana che si scrolla di dosso tutti i clichè del caso parafrasando la propria essenza – il monito si fa universale nel rivelare i meccanismi subdoli che alimentano ogni tipo di discriminazione.
La coerenza artistica è il pregio dell’album, e se il messaggio è attuale e circoscritto altrettanto lo è il sound lo veicola. La connotazione identitaria si traduce necessariamente nelle modalità del blues, ma la sensualità di territori sonori collaudati come r’n’b e soul è elettrificata al punto giusto, per un impasto decisamente catchy in equilibrio elegante e disinvolto tra tradizione e contemporaneità. “Walk in your ways / So you can sleep at night”: l’opener Rise è un mantra di novanta secondi ripetuto con respiro sereno e cadenzato, e l’invito a coltivare la dignità dell’essere se stessi nel successo e nella sconfitta scivola fiero sui synth lucidati a dovere dalla produzione di Raphael Saadiq e dei Majical Cloudz. Con l’hook di Sampha a impreziosire il brano, Don’t Touch My Hair tira in ballo l’imposizione della cultura bianca sulla fisicità delle donne di colore, che passa anche da consuetudini apparentemente innocue come il voler toccare i loro capelli crespi, sottolineata dall’architettura dei beat, ostinata e decisa eppure elegantemente ovattata.
Nel songwriting asciutto la fierezza si palesa in assonanze e reiterazioni, in un gioco di sintesi che genera strutture estremamente melodiche eppure dense di rimandi. La personalità sonora è sfaccettata e resa compatta dalla voce soave della Knowles, tra morbidi episodi di schietto r’n’b a base di piano e fiati (F.U.B.U.), parentesi squisitamente pop come il singolo Cranes in the Sky e Scales (ballad malinconica su cui si innesta un’altro morbido timbro femminile, quello di Kelela), e ancora l’acid jazz di Junie, col flow di André 3000 a sostenere il ritmo, fino al neo soul accattivante e sintetico di Don’t Wish Me Well.
Alcuni dischi fanno presto ad entrarti in circolo, colpiscono alla pancia e istantaneamente impongono il ritmo agli organi vitali. Altri si insinuano un po’ alla volta, ricamando storie da digerire e costruendo empatie. Quelli come A Seat at the Table ti lasciano sazio perchè contemplano entrambi gli step, e lo fanno senza contraddirsi. Non ce ne vogliano Beyoncé e il suo ottimo Lemonade, ma quest’anno il trofeo in casa Knowles va a qualcun’altro.
Tracce consigliate: Cranes in the Sky, Mad, Don’t Wish Me Well