Beyoncé è una che ha fatto della sua tanto decantata perfezione un vero e proprio marchio – e in tutti i sensi. Ma cosa succede quando la perfezione di facciata crolla e Mrs Carter si guarda attorno? In questo caso, succede che Beyoncé produce il suo album finora più ambizioso e completo, e succede anche che riesce finalmente a scrollarsi di dosso l’etichetta di cantante, diventando a tutti gli effetti artista.
Lemonade è un visual album, e non solo perché la sua uscita è stata accompagnata da un eponimo mediometraggio su HBO, ma soprattutto perché le due sono parti inscindibili e perché Lemonade racconta una storia in maniera lineare: è quella di una donna che sospetta, realizza, rinnega e viene a patti con un tradimento, ma è soprattutto la storia di una donna nera, e di tutte le donne nere; l’estetica di Lemonade è interamente nera ed interamente donna, parte della recente ondata di négritude afroamericana nonché una versione più localizzata della presa di posizione di Kendrick Lamar in To Pimp a Butterfly. Se l’evoluzione nelle dodici tracce di Lemonade è quella che va dal particolare (il tradimento) all’universale (la condizione dell’essere una donna nera americana nel ventunesimo secolo), forse non c’è neanche davvero bisogno di rispondere alle domande che circondano l’album (Jay-Z ha davvero tradito Beyoncé? Chi è “Becky with the good hair?”), perché non è quello il punto.
Come di rito per Beyoncé, l’album è firmato da artisti d’eccezione: tra le collaborazioni troviamo James Blake (Pray You Catch Me, Forward), Jack White (Don’t Hurt Yourself), Kendrick Lamar (Freedom) e The Weeknd (6 Inch), tra gli autori Diplo, Ezra Koenig (Vampire Weekend) e Father John Misty, e tra gli innumerevoli sample spiccano il famoso verso “they don’t love you like I love you” di Maps degli Yeah Yeah Yeahs, gli Animal Collective e perfino i Led Zeppelin. Ed è proprio questo mix d’influenze, nonché di generi, a rendere Lemonade un album ambizioso e poliedrico, ma mai confusionario.
La vocalità presa in prestito da Blake in Pray You Catch Me serve ad introdurre sia l’album che a ritrarre l’atto di spiare un amante in silenzio, mentre Hold Up – grazie al suo sapiente mix di sample e autori – prende toni più leggeri pur restando una canzone d’amore. La realizzazione e la rabbia arrivano con i riff di Don’t Hurt Yourself, in cui l’influenza di Jack White è forte, come lo è quella di The Weeknd nell’r’n’b di 6 Inch. L’occasione di abbracciare la musica nera arriva con Daddy Lessons, che cambia la direzione dell’album sia musicalmente (è raro sentire Beyoncé accompagnata da poco altro che una chitarra acustica) che narrativamente, e più tardi con All Night. E se nella seconda parte dell’album compare una ballad non troppo convincente ma che comunque rientra nell’ottica dell’album (Sandcastles), Lemonade torna su vette altissime con l’aggressività di Formation e l’antemicità di Freedom: quest’ultima in particolare continua a fare quel che aveva fatto Lamar con Alright – donare un inno al movimento Black Lives Matter, ed in particolare alle figure femminili (non a caso, il video ritrae le madri delle vittime innocenti uccise dalla polizia).
“I was served lemons, but I made lemonade”, dice la nonna di Jay Z sul finale di Freedom; questo è anche il percorso che fa la stessa Beyoncé attraverso Lemonade: quella Queen Bey che tutti chiamavano già da tempo combattiva, fiera, ‘empowering’ e femminista – ma sulle cui qualità non tutti eravamo così certi – col tempo acquisisce coscienza sociale e artistica, due elementi che si incrociano in un album dall’alto spessore musicale e in un manifesto migliore delle cause che Beyoncé combatte da tempo. Lemonade è un album che finalmente mette d’accordo tutti.
Tracce consigliate: Freedom, Don’t Hurt Yourself, Formation