Seoul_IBAS_1500px_300dpi_grandeEtichetta: Last Gang / Grand Jury
Anno: 2015

Simile a:
Wild Nothing – Nocturne
Washed Out – Paracosm
Phoenix – United

Già passati l’anno scorso sotto i nostri riflettori – l’HYPE #166 ne fu un primo assaggio – torniamo oggi a parlarvi dei Seoul, grazie al loro debut album, I Become a Shade.
Con questo caldo dove ognuno cerca di rinfrescarsi come meglio può, ci pensiamo noi a rinfrescarvi la memoria: i canadesi Julian Flavin, Dexter Garcia, e Nigel Ward avevano fatto il loro debutto nel 2013, pur scrivendo canzoni già da un po’, fra un esame e l’altro all’università; nel 2014 poi l’idea di far sul serio, e la svolta grazie al singolo Stay With Us che fece da apripista alle successive tracce, poi confluite nelle 12 totali che compongono questo loro primo LP.

Se amano definire la loro musica “Blue, breathless, gentle, absolute” il motivo è presto detto: la struttura di base, che ha tutti i connotati del pop, trova espressione ultima in sonorità che ondeggiano più o meno delicatamente dal dream pop al synth pop. Tra le analogie sorprende per qualità quella col sound in voga nella Parigi degli anni ’90 – AIR e Daft Punk – nonché ai Phoenix degli esordi. Ma le analogie non finiscono qui, rendendo i Seoul impossibili da inquadrare sotto un unico genere. Fattore da un lato positivo, ma che al contempo può suscitare alcune critiche. Vediamo insieme il perché.

Partenza in sordina con I Become a Shade, nulla più che un’intro a The Line, traccia dove i Seoul sembrano giocare coi synth, tra pause e improvvise accelerazioni (Toro y Moi versione 2011). La ritmica chillwave prosegue poi con Haunt / A Light, così sfacciatamente catchy da non evitare paragoni con Washed Out. Quando iniziamo a pensare che questo groove di beat e synth sarà il leitmotiv dell’album, ecco sopraggiungere, a suon di chitarre e batteria, Real June, classica canzone che trasuda estate da ogni nota, ispirandosi stavolta ai primissimi Phoenix. Fields e, qualche ascolto avanti, Thought You Were (echi Broken Social Scene) formano l’accoppiata degli unici due pezzi strumentali: considerateli come semplici intermezzi. Altra accoppiata, questa sì ben riuscita, è data dai singoloni White Morning e Stay With Us: impossibile non inserirli, dopo averli ascoltati già lo scorso anno, quando alimentarono l’hype della band. In chiave malinconica I Negate e Carrying Home Food In Winter ci indirizzano verso l’epilogo, collocandosi in una seconda metà, spiace ammetterlo, meno riuscita rispetto alla prima parte. In chiusura vi sorprenderà però Silencer, una delle tracce più convincenti: campo libero a beat che strizzano l’occhio alla disco anni ’70. E per finire troviamo Galway, che in extremis ha il coraggio di sperimentare ma a questo punto lascia così, un po’ disorientati.

Conclusioni? Che dire, i 3 anni di lavoro dietro quest’opera prima si vedono tutti: una produzione molto attenta ai dettagli fa sì che l’ascolto scorra rapido, senza intoppi. Provare per credere. Volendo giocare con le parole, ciò che però si nota in I Become a Shade è l’assenza di una forma ben definita: i Seoul ci restituiscono come un’ombra di loro stessi, dai contorni sfumati che, come accennato sopra, impediscono di limitarli e di capire a chi intendano rivolgersi con la loro musica. A qualcuno potrà così stonare l’eccessiva eterogeneità di questo LP figlio di sottogeneri di ben tre decadi, dai ’70 ai ’90. Tuttavia credo che, trattandosi di musica pop, condensare i richiami agli artisti sopracitati – così diversi fra loro – in un solo album sia piuttosto una nota di merito: in fondo non è nella natura stessa del pop abbracciare la fetta di pubblico più ampia possibile?

Tracce consigliate: Haunt / A LightReal June