Secondo atto per Jack Tatum a.k.a. Wild Nothing bro e sin dai primissimi secondi del disco si avverte l’enorme salto di qualità, che a disco finito fa intendere che questo sia uno degli album dell’anno. Non uno dei tanto millantati “album dell’anno” ma proprio uno di quei pochissimi Album Dell’Anno. Tra Shadow e Paradise, passando per Nocturne, c’è un vortice di emozioni da true dreampopper e se non vi lasciate trasportare state vivendo nell’anno sbagliato. Come già in Grimes (sì anche lei) e Beach House, abbiamo una delle più autorevoli opinioni artistiche su cosa cazzo sia veramente ‘sto dream pop negli anni 10.

La versione che Wild Nothing propone è immersa negli 80s come mai prima, felice schiava della new wave. Lontano dal lo-fi dell’esordio, l’indie pop di Tatum si riveste di sintetizzatori lussuriosi e avvolgenti atmosfere meditative che, schivando di poco lo shoegazin’, ne rubano la melodicità per un’infinità di godibilissimi momenti pop, il tutto immerso in una sensuale atmosfera notturna, come il titolo dell’album e dei primi tre brani lasciano facilmente presagire.
Il salto in avanti rispetto al luminoso Gemini è evidente e totale, in un completo revivalismo senza paura e vergogna, un sentito e per nulla timido tributo ai soliti noti di trent’anni fa (The Cure, The Smiths e Cocteau Twins sono gli ovvi riferimenti). Il tutto è completamente sommerso da uno dei migliori riverberi dell’anno, che, pur onnipresente e imponente, non snatura gli undici capolavori di Nocturne neanche un momento, rendendoli al tempo stesso soffusi eppure nitidissimi.

Ogni canzone merita una menzione speciale: lo shoegaze snaturato di Midnight Song, le atmosfere eterne di Through The Grass, il coinvolgente romanticismo di Only Heather, il ritornello ultracatchy di This Chain Won’t Break, la chitarra protagonista di Disappear Always, i momenti eightiesissimi di Counting Days, la maliziosa penombra di The Blue Dress e la cocteautwinissima Rheya. Ma il trittico Shadow-Nocturne-Paradise si eleva sopra tutto ciò in una commistione di atmosfere, melodie e testi che non lascia scampo.
Shadow è il già tanto lodato incipit dell’album ed urla il nome dei The Smiths a gran voce, dall’ammiccante chitarra acustica iniziale fino all’intenso connubio di archi finale. I testi poi… Da perdercisi: “I try to feel something for you, but that’s all that I can do… Give my shadow to you” e “I’ll go with you if you ask me to, but we wouldn’t get to far… Two strangers in the dark”. Annichilimento totale dell’anima con brividazzi collaterali.
Nocturne è una sincera e imbarazzata confessione di uno stalking innocente e purissimo (“You want to know me? Well, what’s to know?”) che sprofonda poi nell’intensa carica erotica che il binomio baritono/vocedafrocetto genera nel ritornello, melodicamente eterno: “I know where to find you, I know where you go, I just want to let you know… / You can have me, you can have me all”.
Paradise è il Paradiso. Atmosfera da pelle d’oca, unisce in un solo mezzo tutte le migliori caratteristiche dell’album in uno dei momenti più struggenti del decennio, sovrastando un monumentale brano dream pop strumentale con un cantato profondo e minimale che fa di una metafora banalizzata il suo punto di forza totale: “Crush me with a lie and tell me once or twice that love is paradise… That love is paradise.”
E IO QUI HO FINITO.