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Anche il massmediologo Klaus Davi saprebbe riconoscere l’evoluzione di Lapalux da accanito producer di nicchia (LapalUK) a docile fenomeno mediatico (LapalUSA); in più è diventato troppo semplice ascoltare le uscite Brainfeeder. Anche comporle, se la conseguenza è inciampare in una caduta di stile d’oltreoceano che può spedirti nella categoria producer hi fi un po’ anonimi.

Ma l’essere uno dei tanti è un motivo di appartenenza per il roster americano. Nostalchic era un disco cinico, forse uno dei titoli più illuminanti per un lavoro unico e ispirazionale nella sua impronta diy (tra i tanti). Lustmore a confronto è un readymade dalla barbara resa radiofonica, e fa male. La sensazione è che il terribile prodigio abbia smesso di codificare la sua musica per risultare più gommoso e danzereccio nella scelta del beat, funkelicious per continuare con il gioco dei termini.

È il caso dei 6 minuti di Don’t Mean a Thing, che nonostante i deliziosi synth galattici manca di quell’organicità che aveva fatto la fortuna di Flylo e soci. Anche We Lost suona più sporco nella sua componente jazz, variabile onnipresente anche nella nostalgica idm di 1004, che pecca nell’essere un pezzo strumentale in un mare di voci femminili ammiccanti. Tutta la componente sessuale della nuova versione di Lapalux prende nettamente il sopravvento sulle parentesi più libertine di Lustmore, come nel caso di Puzzle, che sfruttando i clap fuori tempo di Mo Kolours trasmette l’entusiasmo del jazz come se fosse uscito dal 2010 di Cosmogramma.

È evidente che il giovane mentore inglese in 2 anni sia diventato parecchio influenzabile, con un sophomore che lo avvicina più al mondo ipno-gangsta di The Weeknd che a quello scientifico di Prefuse 73. Un disco che sa di rito di iniziazione per il mondo dei click facili su Souncloud: ascoltalo sì, ma abbassa il volume.

Traccia consigliata: Puzzle.