Per parlare di Trilogy, triplo disco di Abel Tesfaye, in arte The Weeknd, il ventiduenne che lo scorso anno è piombato nella scena R&B con ben tre mixtapes, occorre fare un sostanzioso ripasso.
Il ragazzo è riuscito a stupire e spiazzare (positivamente) un po’ tutti a marzo 2011 con il suo debut House of Balloons: un mix di vocalizzi cristallini, a tratti androgini, e samples notturni e ghiacciati, viaggiando tra soul, dub e downtempo, narrando di emozioni ossimoriche, di fredde passioni svuotate che si districano in scenari peccaminosi mentre un basso minimale, scuro, profondo, fa vibrare i vetri al rallenty e tutt’intorno è buio; racconti di strada, di sesso, di sinceri “shit, fuck, nigger”, di droghe e di tetri dolori giovanili (“bring the drugs maybe I can bring my pain” ), una storia tutta sulle tonalità del grigio, infarcita di singoloni bomba e ricercate citazioni per le basi: dai Beach House a Siouxsie and the Banshees.
Dopo le parole di elogio spese dal navigato ed esperto collega del settore Drake, The Weeknd se ne esce in estate con un nuovo mixtape: Thursday. Le tematiche sono pressoché invariate ma l’ espressione è lievemente diversa, non tanto nella forma quanto più nelle sensazioni evocate: i suoni si fanno meno compressi e “rimbombanti” e la gamma di effetti utilizzati in produzione, sia nelle melodie che nella voce, si è ampliata, le atmosfere sono leggermente più aperte e dilatate.
La carne al fuoco evidentemente non è mai abbastanza ed ecco arrivare, a dicembre, Echoes of Silence, il terzo ed ultimo mixtape dell’anno che si apre con una cover eccezionale di Dirty Diana di Mr Michael Jackson. La voce è pulita e spinta in alto, da qui fino alla fine di un LP che è la sintesi delle atmosfere e dei bassi cupi (anche se più asciutti e arricchiti dalla batteria elettronica) del primo lavoro e la produzione oculata e minuziosa del secondo; gli argomenti dei testi sono sempre la droga, la strada e gli eccessi che, è ben noto, porteranno alla rovina, ma dai quali non ci si riesce a staccare.
Passano giusto quattro mesi ed ecco il giovane Abel calcare da inizio estate 2012 palchi di festival importanti: Coachella, Primavera e Wireless su tutti, con l’aggiunta di date singole sia negli USA che nel Vecchio Continente.
È quindi ben chiaro che a The Weeknd non piaccia starsene a casa con le mani in mano, e proprio per questo ecco arrivare finalmente la prima uscita per una major – la Universal Republic: si tratta di Trilogy, remaster completo dei tre mixtapes con l’aggiunta di 3 nuove canzoni: Twenty Eight, Valerie e Till Dawn (Here Comes The Sun), collocate rispettivamente in conclusione dei dischi.
Ora potrei mettermi a raccontarvi di quanto la voce rimasterizzata di The Weeknd suoni incredibile in cuffia, di quanto gli accorgimenti alla produzione portino il disco a un livello formalmente superiore rispetto ai lavori dello scorso anno, potrei narrarvi di echi e cori che viaggiano repentinamente dalla cassa destra a quella sinistra creando un’atmosfera avvolgente, potrei analizzare il mixaggio, ma rimarrebbe comunque il fatto che i testi sono pur sempre gli stessi, le tematiche sono sempre il sesso, le passioni e la vita che fondamentalmente fa schifo.
Che senso ha quindi cantare tutto questo in maniera ancor più pulita, nitida, con una scrupolosa e maniacale precisione per il dettaglio?
Ascoltando questa opera tripla in maniera superficiale si potrebbe esultare, rimanere estasiati (e io lo sono ogni volta che metto le cuffie), ma, se freno l’entusiasmo e mi fermo un secondo a riflettere, mi viene da pensare che – senza voler iniziare un arido dibattito italiota su rap di strada e rap delle major – forse era proprio quella vena lofi degli esordi il valore aggiunto di The Weeknd, la sincerità di un ventunenne che aveva voglia di narrare le sue sofferenze per il puro gusto di sfogarsi, senza nemmeno pensare al lucro, a livello quasi terapeutico.
Rimane comunque il fatto che Trilogy sia un lavoro meticoloso e coeso, un percorso che tanto sembra un vagabondaggio notturno nei grigi e nebbiosi vicoli di un’ancor più cinerea metropoli, con le cuffie nelle orecchie e il cappuccio calato fin sugli occhi, occhi impassibili di chi ha visto tutto ma non si è soffermato a esaminare a fondo la cruda realtà, occhi di una persona il cui animo non è stato intaccato o scalfito dall’esperienza. Proprio quest’apatia consapevole risulta però l’emozione più forte, seconda solo alla vista del sole, all’alba di un nuovo giorno che inizia sulle note della conclusiva Till Dawn (Here Comes The Sun).