Un album dei Grizzly Bear è sempre un piacere da gustarsi lentamente; da assaporare, da cui prendersi una pausa, anche lunga, e a cui tornare per riscoprirne sempre un nuovo angolo, suono, un intreccio che ci si era lasciati scappare all’ascolto precedente. Non è forse un caso che molti rimangano inizialmente neutrali nei confronti del quartetto di Brooklyn: la band non è schiva alle melodie indie pop – difatti non è propriamente sbagliato annoverarli nel genere – ma tra l’aver ascoltato qualcosa dei Grizzly Bear ed aver ascoltato i Grizzly Bear c’è un abisso superato il quale non si torna più indietro.

È un abisso colmato dal talento di quattro musicisti che, da ormai quindici anni, lavorano a cesellare i suoni a livello microscopico, e che soprattutto da Veckatimest (2009) in poi hanno continuato a sviluppare delle sonorità sempre più ricche, ancorate al folk e fregiate dalle armonizzazioni vocali, ma dalla formazione di stampo jazz e con innesti elegantemente elettronici. Painted Ruins arriva dopo cinque anni di pausa di cui più di due sono stati spesi in studio, intensifica gli elementi elettronici ed è un moto inverso rispetto alla corrente lo-fi degli ultimi tempi che preferisce l’indie rock dai suoni grezzi e spogli: così come gli ultimi Fleet Foxes in Crack-Up, l’attenzione ai suoni è geometrica ed ogni strumento (incluse le voci) non accompagna ma genera trame che, intersecandosi, creano le atmosfere e gli stati d’animo alla base dell’album.

L’esplorazione delle rovine dipinte parte con l’immersività di Wasted Acres, che come il gioiellino pop Mourning Sound e come l’elegante marcia di Four Cypresses è frutto letterale delle osservazioni mattiniere in casa Rossen, degli spazi immensi e incolti dietro a cui si nasconde, sapientemente, il fulcro dell’album, che è un disco sull’inevitabile caducità dei rapporti umani, che dipinge la sofferenza razionalizzandola nelle trame precise di Cut-Out o nei synth in climax di Three Rings, ma che di tanto in tanto si lascia sfuggire un lamento, soprattutto quando la penna passa ad Ed Droste: Neighbors è cantata interamente da Droste quando improvvisamente Daniel Rossen, invece che armonizzare, ci infila di sottecchi un “but you left me broken, but you left me helpless”. È proprio la rarità di questi momenti di franchezza che sottolinea le sottigliezze autoriali dell’album, come il verso “every moment brings a bitter choice, the knowledge you can’t win with what remains” che quasi si perde tra le distorsioni di Aquarian e l’ammissione di colpa di Chris Taylor (per la prima volta voce principale) in Systole: “you know that I lost that key that promised home”. Bisogna però aspettare il finale più grave e notturno di Sky Took Hold prima di risalire al livello precedente, e di conseguenza alla chiosa finale:

Since I was a young boy it was always there
inside me growing, none of it seems fair
I’ve grown to accept it, let it take the stage
and leave me helpless, watching far away.

Se i cinque anni di pausa dei Grizzly Bear ci hanno insegnato qualcosa, è che sono stati essenziali per metabolizzare ed impacchettare ogni singolo elemento che ha portato alla creazione di Painted Ruins, un album essenziale, dove nulla è vittima del caso e tutto è il concept di fondo. Non è forse un caso che i Grizzly Bear siano la band preferita di Jonny Greenwood: sono poche le band attive al momento il cui modus operandi si avvicini a quello dei Radiohead, ma un curriculum costantemente d’eccezione e la capacità di non snaturarsi mentre il mondo indie là fuori arranca sono chiari segnali che la categoria d’appartenenza dei Grizzly Bear è ormai quella dei fuoriclasse.

Tracce consigliate: Aquarian, Three Rings, Sky Took Hold