Parlare dei Deerhunter non è semplice. C’è un alone di mistero che ha sempre circondato la band, una patina di distanza a separare la musica dallo spettatore, ma poi ci sono anche i mille aspetti da prendere in considerazione quando se ne valuta l’operato, cosa che rende ancora più difficile parlare del loro settimo LP.
Fading Frontier, già settimane prima dell’uscita, era stato annunciato quasi all’unanimità come il loro album più diretto, accessibile e “semplice” – “calm, comfortable and content” titola The Verge – quando in realtà quel che vien fuori ad ogni ascolto è una stratificazione che lo rende sempre più torbido, di una contentezza/riappacificazione che resta disfunzionale; sarà per questo che il mare sulla cover di Fading Frontier non è altro che un quadro fra le macerie (la bellissima foto in copertina è di John Divola). Sempre di Fading Frontier si è detto che subisce le influenze di artisti come Real Estate, Mac DeMarco e Animal Collective, quando in realtà tutto quel che è questo disco non è altro che Deerhunter puri: tutte quelle “influenze” erano già presenti nei sei album precedenti – pensiamo a Halcyon Digest – e nel side project Atlas Sound. Più che influenze diventano quindi rielaborazioni.
Finora abbiamo parlato di cosa non è Fading Frontier. Ma allora cos’è?
Fading Frontier nasce dopo l’ennesimo trauma subito da Bradford Cox: un incidente molto grave avvenuto mentre portava a spasso il suo cane Franklin, che nel periodo di guarigione diventa una delle fonti d’ispirazione per l’album (lo stesso Cox lo cita tra le “influenze” nella mappa concettuale del disco) e che compare non solo nelle foto promozionali, ma anche nel video del primo singolo estratto, Snakeskin. Per Cox è un periodo di calma ritrovata: il momento di guardare al passato e comporre un album meno tumultuoso.
A governare l’atmosfera è quel genere che potremmo distrattamente chiamare jangle pop, o noise pop, o dreampop, derivazione più “positiva” del noise rock con cui li conosciamo. Nei brani d’apertura All the Same e Living My Life il tono upbeat è nei riff di chitarra, mentre la voce di Cox rimane filtrata e disturbata, quasi a voler mettere in evidenza il lato più buio dei contenuti: “Will you tell me when you find out how to recover the lost years? I’ve spent all of my time out here chasing the fading frontier“. Anche Breaker, secondo singolo estratto dall’album, si fa accompagnare da un giro di chitarra semplice, metallico, lasciandosi poi sommergere da quegli strati di synth che ritroveremo in tutto l’album, e che compaiono con connotati più psych in Duplex Planet e poi in Take Care, una ballad inusuale, disfunzionale. E se il minimalismo e la voce strisciante nei sei minuti di Leather and Wood spezzano di poco l’atmosfera (forse l’avrei preferito sul finale), Snakeskin torna a strisciare su sonorità quasi funky, sempre felici e spensierate (“I was born already nailed to the cross, I was born with a feeling I was lost“). Con Ad Astra Lockett Pundt ci porta nello spazio, poi, a rincorrere tappeti di synth, mentre Carrion (“carry on”) ci riporta al punto di partenza, rimettendo in evidenza la voce di Bradford Cox, che ci ricorda che va tutto bene: “what’s wrong with me?”
Qui mi scuso, perché quei 36 minuti li ho raccontati tutti, ma mi sembrava sbagliato decontestualizzare quel che andrebbe ascoltato come opera unica. Va anche ammesso, però, che ogni brano è forte di per sé, altra prova della maturità compositiva dei Deerhunter, una tra le rock band più imperscrutabili e imprevedibili dell’ultimo decennio. Fading Frontier va avanti senza smettere di guardare indietro, è un disco dal tessuto che si dispiega sempre più ad ogni ascolto, ricordandoci che i Deerhunter sono ben lontani dal capolinea.