Nella notte tra il 9 ed il 10 maggio del 2010 i National si apprestano a pubblicare il loro quinto album, High Violet, il primo su 4AD. Il tempo passa velocemente e quando ti guardi indietro tutto sembra essere durato quanto dura uno shottino di Tequila, ma quando si parla di High Violet il tempo si ferma, come quando fai 30 secondi di plank. Robe che nel tuo cervello sembrano durare un’eternità. Ed è una bella fortuna (certamente non per il plank), oltreché una dote di pochissimi album. Il 2010 infatti fu l’anno, tra i tanti, di Halcyon Digest, di Innerspeaker, di The Suburbs, di Gemini, di Teen Dream. Piccoli grandi masterpiece che decretarono la fine dell’indie con il “The” davanti e che inaugurarono una nuova fase, esteriormente meno turbolenta, più matura e più complessa, nella quale i National recitano ancora oggi la parte di indiscussi protagonisti.

Da quel 2010 ad oggi la band ha pubblicato altri tre lavori, ma è solo grazie ad High Violet che oggi riusciamo a comprendere il senso della loro discografia e dei loro live. Che poi è quasi tutta una questione di longevità e averne di questi tempi (la longevità) è anche questa una bella fortuna. Questo album ha cambiato la storia della band e recita ancora un ruolo chiave nella loro carriera, fuori e dentro lo studio. Qualcuno riesce a immaginare oggi un live senza Vanderlyle Crybaby Geeks? Sarebbe come una messa senza comunione; una liturgia senza riti in cui Matt Berninger non consola né si arrampica tra la folla. Ecco, questo sì che sarebbe un bel mondo di merda. Loro non sarebbero gli stessi, ma probabilmente nemmeno i fans. E se volete capire meglio la cosa, c’è questo bellissimo video del live ad Ypsigrock 2019.

Ma facciamo un velocissimo passo indietro: i National di High Violet arrivano ovviamente da Boxer. Considerato da molti il loro miglior lavoro, l’alfa della loro carriera, è quello che li ha praticamente sdoganati alle masse, forse anche grazie a quella Fake Empire della campagna di Obama del 2008. Passeranno quasi altri dieci anni – eccezion fatta per Bloodbuzz Ohio – per tornare più o meno esplicitamente all’impegno politico con Sleep Well Beast, ma questo è tutto un altro discorso. In ogni caso, Boxer ruppe gli argini e mostrò al mondo un nuovo modo di essere una band di New York (in realtà dell’Ohio) ed è un aspetto estremamente territoriale che ha permesso loro di essere considerati una rock band di americani per americani e che parla dei problemi degli americani. Questa nuova tendenza – che non comprende più il chiodo, le magliette lerce di seconda mano e la ribellione estremizzata – nasce adulta e non vuole rappresentare solo una fase della vita, anzi tende all’infinito: esordisce con Boxer e si espande con High Violet continuando nel tempo con leggere variazioni sul tema (vedi il successivo Trouble Will Find Me).

Deludere i fan era un rischio concreto. Del resto, dopo i capolavori spesso vengono fuori delle mezze sole e, sebbene in prima battuta l’effetto poteva risultare un po’ blando, High Violet ha ripreso ex post tutta la dignità che merita. Un album che riesce – per certi aspetti – a superare il suo predecessore e che negli anni successivi non è stato eguagliato. Non sono state fatte scelte estreme o impopolari: le sperimentazioni elettroniche, ad esempio, arriveranno più avanti. Piuttosto si è assistito ad un consolidamento del “National-pensiero“, che rimane fondamentalmente un prodotto post-punk. Ma da qui in poi l’enorme raffinatezza che accompagna il baritonale di Matt Berninger sarà più bilanciata, sia rispetto alla cupezza delle atmosfere, sia rispetto a chitarre che diventano più fluide (anche grazie ad una batteria meno frenetica), mentre le ripetizioni nelle liriche si trasformano definitivamente in ossessioni, ma più contenute; quelle del tipo “seduta psicanalitica” ad esempio in Terrible Love:

It takes an ocean not to break
It takes an ocean not to break
It takes an ocean not to break
It takes an ocean not to break

E a proposito di testi c’è l’obbligo di citare anche Letizia Bognanni e Daniela Liucci autrici di The National, Walking With Spiders. Testi commentati: un piccolo manuale edito da Arcana che se vuoi approfondire le liriche dei National devi tenere assolutamente sul comodino.

Come detto, questa è una storia principalmente di americani ed in High Violet c’è tutto quello che ti aspetti quando pensi agli Stati Uniti di Springsteen o di De Lillo. La fuga, le lunghe strade e l’evasione dalla finzione della perfetta famiglia americana. Città e provincia. L’oceano come sinonimo, appunto, di fuga reale o immaginaria e le città, da New York a Los Angeles, in un coast to coast mozzafiato che alcuni vivono e che altri comprendono, guardandolo dall’esterno, proprio grazie a queste storie. Ci sono Lemonworld, Conversation 16 e Runaway: tanti piccoli racconti pronti per altrettanti film. Storie di ieri, ma attualissime, a metà tra la fiction e la realtà. Moderni e universali già allora, proprio perché i problemi di 10 anni fa sono quelli di oggi. E tutto viene condito dallo spiccato umorismo nero di chi conosce molto bene i debiti e le paure post-9/11 ancora vive e vegete nel 2020 nei pensieri e nella cultura americana.

E che questo album sia una macchina bella e ancora funzionante, ce lo dicono anche i live della band, dove si capisce meglio come mai questo album non perda energia a distanza di tempo. Stando, infatti, al resoconto di Setlist.com, High Violet è l’album più suonato dalla band. Eccezion fatta per la citata Fake Empire e per Mr November (che fino al 2010 ha rappresentato la loro hit) sono proprio Bloodbuzz Ohio Terrible Love a tenere le redini delle loro esibizioni.

Con High Violet i National hanno anche dimostrato di essere pronti al grande salto senza scendere a compromessi. Cosa che quando ti attendono in tanti è spesso estremamente condizionante. Possiamo al massimo dire che sono scesi dal palco per abbracciare il proprio pubblico, che negli anni continua a dimostrare una fedeltà ed un amore d’altri tempi; un amore da storia strappalacrime hollywoodiana. Non sviliranno mai il proprio modo di essere, ma al contrario, sarà il mercato ad adeguarsi a loro. E guardando al panorama musicale recente viene difficile trovare qualcuno che si ispiri a questo album: nessuno (se non loro stessi) è in grado di incastrare in questo modo i testi nei crescendo e negli special ed è questo un ulteriore fattore che ci continua a far schiacciare play sul disco, perché quando ascolti High Violet non ascolti solo un album, ma ascolti la filosofia di una band.

Sono passati dieci anni da quella notte tra il 9 ed il 10 maggio e potremmo stare qui a discutere per ore senza giungere ad un risultato certo sulla posizione che ricopre questo album nella ipotetica classifica discografica dei National. Non esistono risposte esatte, così come non si può preferire un genitore rispetto ad un altro, ma un pensiero sovrasta gli altri: High Violet è stato ed è tutt’ora l’unico album imprescindibile senza il quale i National non sarebbero quelli che sono oggi e cioè, forse, la più importante band globale rimasta di nicchia di questo millennio. E nemmeno noi lo saremmo. E probabilmente continuiamo ad amarlo perché non vogliamo cambiare mai.