“Terrible Love is a good thing, is a positive thing […] is the only kind of love”. Una affermazione semplice, per certi versi banale, eppure al contempo sinceramente pregna di tutto il carico emotivo di cui i National si sono fatti, negli anni e nei sei – ora sette – dischi pubblicati, sublimi aedi. C’è il nudo tormento in quelle poche parole, pronunciate prima di questo live, sì, è lì, talmente evidente che ogni tentativo di mascherarlo risulta persino goffo; ma c’è anche l’albore di una cosciente autoanalisi appena iniziata e destinata, ben presto, a tramutarsi da fievole barlume in stella polare che conduce il vivere.

Sleep Well Beast, a partire dal titolo, racchiude questa dicotomia amore-sofferenza apparentemente indissolubile; in esso si palesa anche tutto il compendio di ossimori esistenziali che sono linfa vitale dell’uomo in quanto tale. La figura della bestia dormiente è già di per sé potentissima: un peso ineluttabile che brilla nel buio dei dormiveglia e che adombra le albe successive, sempre presente, sempre costante, impossibile fuggirne gli occhi puntati sulle nostre anime. Formulata in questo modo, però, la frase diventa l’augurio di una buona notte donata dalla vittima al proprio carnefice; ma non siamo di fronte ad una sindrome di Stoccolma, bensì alla consapevolezza finalmente maturata che, in fondo, senza quella bestia, quel fardello, quella compagna di vita, non saremmo più noi stessi, non saremmo più umani.

Il tormento di cui sopra, occorre specificarlo, non è solamente di natura sentimentale-amorosa. Oggi, per forza di cose, esso acquista anche i natali di una situazione sociopolitica sconcertante per i cinque membri della band. “Even if I didn’t want to think about it as a political record, it obviously is. Everything’s fucking political right now”, dice Matt in una intervista e The System Only Dreams In Total Darkness, il primo singolo, insieme all’incredibile Walk It Back, si fa, volente o nolente, manifesto della frustrazione generazionale. La bestia che abbiamo a casa, la bestia che ci portiamo dentro quotidianamente e che non accenna ad andarsene, la bestia che siamo noi, diventa quindi una sorta di sinistro conforto.

Proprio da questo punto di vista si apre il disco, i cui testi sono stati scritti da Matt in collaborazione con la moglie Carin. Nobody Else Will Be There, nessuno, solo due persone, fonti di dolore per se stesse e per l’altro, perse in una canzone che, già ai blocchi di partenza, mette sulle ginocchia nella sua semplicità (“Hey baby, where were you back then?/When I needed your hand/I thought that if I stuck my neck out/I’d get you out of your shell/My faith is sick and my skin is thin as ever/I need you alone/Goodbyes always take us half an hour/Can’t we just go home?”). Anche l’altrettanto meravigliosa Empire Line racconta in maniera disarmante gli sforzi fatti per mantenere viva una relazione, nonostante il naturale deteriorarsi e l’allungarsi delle distanze dettati dal passare del tempo, in un’apertura finale che lascia senza fiato (“I’ve been talking about you to myself/Cause there’s nobody else/And I want what I want/And I want everything”).
I litigi interpersonali appaiono inutili, la rabbia diventa uno sfiancante ed evitabile spreco di forze (eloquente il fatto che sia proprio Turtleneck, il pezzo più arrembante del lotto, a risultare il meno ispirato – con la riserva del live) sostituito dallo scendere a patti, un giusto mezzo tra l’ira furibonda e il pianto inerme, senza la paura di apparire deboli nella resa: “It’s nobody’s fault/No guilty party/We just got nothing/Nothing left to say” (Guilty Party), “So blame it on me/I really don’t care/It’s a foregone conclusion” (Carin at the Liquor Store). Non c’è nemmeno imbarazzo nel raccontare l’automedicazione dello stato psicofisico ricercata in alcol e sostanze psicotrope, fugaci palliativi ai mali del mondo: I’ll Still Destroy You se ne fa portatrice tematica, Day I Die inserisce invece la questione in una visione più ampia, fatta di nostalgici riferimenti a canzoni del passato, che culmina in quella che sembra essere (almeno nello slancio musicale) la speranza di avere accanto la propria compagna fino all’ultimo giorno concesso sulla Terra.

Proprio in questo senso e forse come mai prima d’ora nella carriera dei National, Sleep Well Beast è un disco costellato di una dolcezza spontanea, naturale proprio nel suo manifestarsi nel bel mezzo del dolore e delle difficoltà. Dark Side Of The Gym canta con tenerezza l’amata elevandola metaforicamente a Venere di Botticelli (“I have dreams of anonymous castrati/Singing to us from the trees/I have dreams of a first man and a first lady/Singing to us from the sea/So I’m gonna keep you in love with me for a while/I’m gonna keep you in love with me”), Born To Beg è un inno al sentirsi inferiore e quindi grato nei confronti dell’amore della compagna, tanto prezioso da tenerlo stretto con le unghie e con i denti (“I was born to beg for you/I’d cry, crawl/I’d do it all/Teakettle love, I’d do anything”), fino alla buona notte reciprocamente sussurrata in conclusione nella titletrack.

Sleep Well Beast è l’album della consapevolezza, tanto nei testi quanto nelle impalcature musicali di cui la band è maestra. Il comparto ritmico lascia, come sempre e forse questa volta ancor di più, a bocca aperta, con tempi dispari e controtempi che inspiegabilmente diventano pop, arricchiti da insenature elettroniche. I Dessner, dal canto loro, edificano melodie struggenti che disconoscono qualsivoglia filtro e barriera, arrivando sempre dritti come un pugno al plesso solare: quarti battuti da pianoforti, chitarre che ora sono acide incursioni ora carezzevoli arpeggi, sinfoniche aperture d’archi speranzosi e reticenti sintetizzatori minimali.
È tutto molto posato, naturale, sincero; non c’è mai la ricerca di un ritornello che suoni forzato, non c’è foga. Ogni pezzo (tranne Turtleneck) arriva al primo ascolto e poi cresce dentro in un tumulto emotivo.

Sleep Well Beast è un disco che nasce da un’urgenza compositiva rara, è un disco fatto prima per se stessi e che diventa poi, solo in un secondo momento, per gli altri; è un lavoro tanto spontaneo, quindi figlio della vera causa generatrice dell’arte, quanto minuziosamente studiato. È il risultato ottenuto da cinque uomini di mezza età che si siedono a un tavolo e fanno i conti, per davvero, con la società, con le loro carriere musicali, con le proprie situazioni familiari, ma soprattutto con se stessi. E noi siamo lì, ancora lì con loro, come sempre.

Non è più il momento di provare A Lot Of Sorrow, è il momento di provare a vivere la vita nel migliore dei modi (e dei mondi, alla memoria di Leibniz) possibili, per quanto devastante tutto ciò possa essere. Non c’è gioia, no, mai, e la voglia di fuggire è sempre lì, il precipizio è sempre lì, ma lo sguardo è rivolto altrove.
C’è un cambio di atteggiamento o, almeno, un nuovo impegno nei confronti della vita, con le radici affondate in una nuova consapevolezza: tanto nelle relazioni tra esseri umani quanto nell’intimo del singolo individuo convivono angeli e demoni, in un perenne ottovolante di alti e bassi. È un circolo vizioso che, anche se non cercato né voluto, si morde la coda per natura, per il semplice fatto di avvenire nel mondo secondo i propri paradigmi. In fondo siamo tutti proiezioni bestiali di noi stessi e bestie per il prossimo, bisogna solo accettarlo, prendendoci cura della nostra umanità, per poterci prendere cura delle persone amate, per rendere un po’ migliore il vivere, per poter, finalmente, sorridere.

Sleep Well Beast rappresenta appieno l’anima dei National: melodie e liriche rare, sincerità, franchezza, una schietta umanità che non si vergogna delle proprie debolezze, il dono di saper mettere in musica i sentimenti. Un’altra piccola gemma.

Tracce consigliate: Nobody Else Will Be There, Empire Line, Day I Die