Il mito di Kurt Cobain e dei Nirvana è sempre stato uno dei feticci della musica rock, indipendentemente dal lato in cui si schierano gli “adoratori”: chi inneggia ciecamente al mito e al genio, e chi invece pratica negazionismo estremo, pontificando sui forum dell’internet e negando l’eredità musicale della band. Non starei qui a parlarne se fossi estremista, così come non credo che lo farebbe Brett Morgen. Poi si sa, gli estremismi, in un documentario, puzzano di telenovela.

Cobain: Montage of Heck, lungi dal negare l’evidenza del Kurt Cobain-mito, cerca di superare quel che è mito e cerca di dar voce al Kurt più umano; mentre qualche anno prima di lui Gus Van Sant ci regalava lunghi silenzi e piani sequenza degli ultimi giorni di vita di Cobain in Last Days, Morgen rianalizza l’intimità del cantautore di Aberdeen e lo fa con diversi media: foto, filmati di famiglia, interviste, ricostruzioni animate ed estratti dei diari di Kurt, il tutto con intermezzi deliranti e filmati a metà tra il surrealistico e il grottesco.

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Il mix di generi suonerebbe quasi come un’accozzaglia, se non fosse che il documentario è volutamente rumoroso e grezzo, anche e soprattutto nel montaggio, e crudele nella sua ricerca di onestà. Da un lato c’è la ricostruzione dell’infanzia di Kurt, che è forse la parte più distruttiva: i filmati di un bambino bellissimo che corre per un prato accostati ai genitori che raccontano in quasi totale tranquillità di quanto non volessero tenersi quel figlio ribelle e iperattivo, palleggiato tra un custode e l’altro; l’adolescenza da white trash raccontata con le illustrazioni, forse un po’ troppo romanzate, ma una scelta comprensibile vista l’assenza di alcun “interprete” del personaggio.

Poi nella seconda parte c’è il Kurt Cobain dei filmati e dei diari, l’uomo messo allo scoperto senza l’aiuto di altri a raccontarne la storia: nonostante la rabbia generata dalla prima parte, è proprio la mancanza di veli della seconda a renderla più pura e intima. Kurt che odia i giornalisti, Kurt che gioca con la figlia Frances, Kurt che limona amabilmente la sua Courtney Love nel famoso appartamento di Los Angeles (sì, proprio quello). Ed è questo Cobain dei contrasti che affascina di più, e l’ha sempre fatto: simbolica di queste sue contraddizioni è la risposta che dà a un giornalista quando gli chiede se I Hate Myself and Want to Die sia satirica o reale: “it’s as literal as a joke can be.”

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Molto si sa della figura mitica di Cobain, e non troppo poco di quella intima, che in Montage of Heck viene esplorata in modo pure troppo invadente – e con scopi non di certo purissimi, si potrebbe dire, visto che a produrlo è stata proprio la figlia.
Ma al di là del lato monetario e di varie pecche – tra cui delle interviste potenzialmente illuminanti ma mal sfruttate – quel che c’è davvero da “recensire” prima e dopo la visione risponde alla domanda: qual è la portata di questo lavoro?
La risposta non è sempre diretta, ma forse non vuole esserlo, ed è proprio per questo che lo chiamiamo documentario. Per capire l’eredità dei Nirvana, per capire l’artista, Montage of Heck cerca di capire prima l’uomo. E il Kurt Cobain-uomo è d’interesse non solo per i fan sfegatati e i grandi nostalgici, ma anche per chi si trova di passaggio e ha voglia di ascoltare una storia.