Giorno uno, venerdì.
È il primo giorno di Manifesto, neonato festival musicale romano in collaborazione con Musical Box di Raffaele Costantino, e ho un piede rotto da un giorno. Il cartellone di questa prima edizione del festival propone gran bei nomi di producer italiani, e, cito testualmente, «L’obiettivo non è quello di descrivere una “scena” ma piuttosto di raccontare linguaggi che amano innestarsi su altri linguaggi, visioni che si ritrovano a dialogare con il passato e il contemporaneo, suoni “made in italy” con la vocazione a sconfinare oltre ogni coordinata spaziale. In realtà l’obiettivo è quello di divertirsi da matti e ballare». Abbastanza consapevole quindi di non poter conseguire a pieno la mia fruizione di Manifesto o comunque di non poter conseguire tutti tutti gli obbiettivi, mi muovo verso il Monk con la speranza di riempirmi almeno le orecchie di buona musica. Non posso dire di aver sbagliato previsioni.
Arrivo un po’ tardi e colpevolmente mi perdo i Rainbow Island (non il videogioco degli anni ’80, la bella band romana) e di questo un po’ mi pento. Arrivo giusto in tempo per vedere Yakamoto Kotzuga salire sul palco con la sua fender e il mac aperto davanti. Il giovane di casa Tempesta inizia il suo set puntuale, l’elettronica vibra e riempie la sala grande del Monk; il pubblico resta ancora a quella distanza di sicurezza di tre metri dalle transenne ma non riesce a star fermo quando partono i pezzi migliori di Usually Nowhere, e dopo dieci minuti cede e inizia ad occupare tutto lo spazio davanti al palco, ondeggiando al ritmo dell’elettronica intelligente del genietto veneto. Il tutto prima che si metta a picchiare come un fabbro con casse da trap impazzita, lasciando per un po’ da parte l’IDM e rivolgendosi alle gambe della piccola folla accorsa pian piano prima di chiudere.
Segue Capibara, che si presenta on stage con due bacchette, si suona il beat e lo manda in loop. Il cofondatore della White Forest Records ingrossa le fila del pubblico mantenendo il tenore dell’ultima parte del set di Yakamoto Kotzuga: bassi duri, sample ripetuti e un’attitudine devota al dancefloor, che magari su disco potrebbe pure portare alla monotonia, ma è quasi mezzanotte e tutti hanno bevuto qualcosa e il set dura poco più di mezzora, quindi non si strafa e non si perde il senso della misura. Il producer romano riesce ad innalzare ancora di qualche grado la temperatura e l’attesa per quello che sarà il main event della serata.
Sale Populous ed è il delirio: il palco del Monk si accende nei colori della notte desertica dei visual, mentre Andrea Mangia ripropone il suo Night Safari accompagnato da Andrea Rizzo alla batteria. Il deserto idealizzato si mostra dietro il duo che suona e macina pezzi su pezzi, con il pubblico che si accalca davanti le transenne e balla – probabilmente si diverte anche da pazzi, bravo Manifesto, ben riuscito. Ad accompagnare i due ogni tanto sale sul palco Lucia Manca, che aggiunge lo strato vocale ai pezzi cantando meravigliosamente e balla con i due Andrea che si son fatti ormai prendere dalla musica. In mezzo a questa notte movimentata africoromana mi sono molto arrabbiato per il mio piede rotto, ma lo spettacolo è stato grandioso e coinvolgente.
Populous termina l’esibizione e ci si rende conto che il climax è appena passato; è per questo che la violenza sonora del dj set di Ice One sembra ancora più pervasiva. Ice One non lascia scampo, la scaletta è serratissima, i bassi violenti e i ritmi forsennati. Stiamo parlando pur sempre del rapper e beatmaker ex Colle der Fomento e Assalti Frontali, e da lui ci si aspetta questo: quasi fermo sul palco, le sue mani si muovono sicure sui controller e fa tremare tutto l’impianto col suo set, trucidello q.b. Ice One si perde nei suoi dischi e strafora, prendendo un po’ del tempo al suo giovanissimo collega Machweo, che dovrà mettere i dischi dopo di lui. Il set di Ice One è strabordante e al contrario Machweo con la sua cassa dritta più canonica può solo ipnotizzare i reduci del veterano che restano in mezzo al locale. Ma sono quasi le tre di notte e ancora il mio piede non è guarito quindi non sono esattamente il ghepardo del dancefloor, ergo rinuncio e vado a casa.
Alla fine di questa prima serata faccio delle considerazioni generali, sparse: l’impianto vibra un po’ nei bassi più intensi, ma la resa sonica soprattutto per gli ospiti più attesi è buona, e i cambi palco rapidi (massimo dieci minuti): il tempo di una sigaretta o di una birra al bar e si ricomicia. Pochissime file, bravi i fonici, baristi sorridenti. Bravo Monk.
Giorno due, sabato.
Di nuovo un’ammissione di colpa: mi dispiace Yombe, non son riuscito a seguire la vostra esibizione. Son riuscito ad arrivare al Monk solo nel bel mezzo del live di Two Thousand per gustarmi il grosso suono analogico delle sue macchine, ottimo warm up per quella che sembra la giornata più attesa di Manifesto.
Finisce Two Thousand e alcuni energumeni spostano un grosso tavolo al centro dello stage; accanto ad alcuni macchinari c’è una candela, e qualcuno la accende. Stanno chiaramente preparando il terreno per l’avvento di Mai Mai Mai. Quasi non c’è tempo per pensarlo e subito arriva, sempre bardato e mascherato e grosso in una maniera minacciosa. Dopo un inizio con un battito primordiale il set e gli aggeggi di Mai Mai Mai si innalzano in una serie di finti climax morbosi, accompagnati dai visual inquietanti di Simne Donadni. Tutto si chiude con Mai Mai Mai che spegne, nello stesso momento, la musica e la candela, andando via tra gli applausi di un pubblico scosso ma entusiasta. Ciò dopo aver suonato tutto il tempo col solito cappuccio in testa e senza scarpe – tutto bene.
Se con Mai Mai Mai non mi è venuta nemmeno mezza tentazione di accennare un ballo, condizioni psicofisiche a parte, è Indian Wells a mettermi davvero in difficoltà. Premettendo che il lavoro del giovane produttore calabrese mi piace molto, è oggettivamente complicato assistere ad un live di Indian Wells e stare fermi. Il complesso, l’insieme di audio e video (grandi visual ispirati al tennis di Jonathan Marsh), la cassa dritta e l’elettronica raffinata a-la Jon Hopkins o Four Tet rendono euforica la musica del produttore nascosto dietro il suo mac, che di per sé non sarebbe così travolgente. Eppure c’è una nota nascosta nelle tracce di Indian Wells, un modo particolare di caricare i momenti di climax senza trucchi, ma facendo scivolare l’ascoltatore dentro il loop galvanizzandolo ripetizione dopo ripetizione. Tant’è che il pubblico dà di matto, Populous è in prima fila che balla come un pazzo e questo è l’apice musicale della serata.
Ho sottolineato volutamente “musicale” perché in realtà l’apice di fomento lo raggiunge Daniele Baldelli: il suo dj set cambia antropologicamente il Monk, che vede spuntare personaggi di età varie e prende le fattezze di una discoteca vera e propria, con il dj che cambia i dischi (proprio i compact disk questa volta), tra house e accenni di disco music in una sala gremita. Cambio di strumentazione ultrarapido e gli da il cambio Jolly Mare col suo Macbook, ma anche oggi è il momento della musica per ballare e io di ballare proprio non sono capace stasera. Rifacciamo il mese prossimo con gli interessi?
Giorno tre, domenica.
È domenica e andare ai concerti è un buon modo per sfuggire al male di vivere della domenica sera. Il terzo giorno di Manifesto mi viene in grande aiuto e così questa volta non mi perdo nessuno, arrivo giusto in tempo per sentire L I M, ovvero Sophia degli Iori’s Eyes. Il palco è ben più affollato di strumenti analogici, bassi, batterie, eppure L I M è sola sul palco e sembra esserci caduta da un altro pianeta. La voce riverberata e lontana, i movimenti minimi e i suoni sintetici alla Arca, il corpo minuto dentro un costume da bagno e un paio di jeans, le danno un che di alieno. L I M è sola sul palco ma lo tiene bene, i presenti della domenica sono tutti concentrati e l’applauso quando lascia il palco per questo nuovo progetto è sincero.
C’è il forfait del progetto Sorge di Emidio Clementi e Marco Caldera, quindi a sostituire L I M ci pensano i Rodion freschi freschi del nuovo disco Generator. La line up sul palco è atipica, con un tavolo colmo di macchine elettroniche, un bassista e un batterista, e la musica arriva drittissima con arpeggi analogici che introducono tracce che sono – a voler generalizzare – un misto tra gli LCD Soundsystem, vocoderate alla Daft Punk e lunghe jam strumentali. È un mix che alla lunga magari su disco potrebbe stancare, o sembrare già sentito. Dal vivo però i Rodion divertono e si divertono, sono una bomba e se ne accorgono tutti quelli che arrivano fin sotto il palco a ballare come se non fosse il giorno del signore, e a richiedere il bis.
L’ultimo a salire sul palco di Manifesto è Alfio Antico. Il bizzarro cantautore e percussionista italiano ha rilasciato quest’anno il chiacchieratissimo Antico, prodotto da Colapesce, che molti vedono come uno dei dischi dell’anno. Ecco, Alfio Antico sale sul palco con delle corna da caprone, alla sua sinistra due musicisti e alla sua destra un pugno di tammorre (percussioni folkloristiche simili a tamburelli) di varie forme e dimensioni. Non si capisce quasi niente di quello che dica (parlo a nome dei non siciliani qui), ma si percepisce l’assoluta atemporalità del progetto Antico, che prende i confini dei generi e li dimentica: folk, elettronica, musica popolare, art rock, sperimentazioni; questa atemporalità è concentrata nella sua figura, nel suo suonare in controtempo questi enormi tamburi, nel suo stare dentro e fuori la musica, e nel suo sembrare l’unico fruitore vero, l’unico che può capire tutti i suoni che egli stesso produce. L’atmosfera cambia radicalmente rispetto ai Rodion ma non il pubblico, anche stavolta attento e percettivo, nonostante l’oggetto musicale assolutamente atipico.
Le parole misteriose di Antico chiudono la prima edizione di Manifesto, che ha allietato piacevolmente il mio zoppicare ed è stato un gran bel festival senza scomodare nomi enormi che “fanno figo”, tenendo una qualità alta e dei progetti coerenti, con serate organizzate bene anche a livello dei tempi della line-up.
Insomma, bravo Manifesto, bravo Raffaele Costantino, bravo Monk, è stato un bel festival.