Se si possa o meno andare oltre il “post”, può sembrare un gioco di parole per riflessioni sociologiche annacquate da troppe erre mosce, ma risulta in realtà una questione fondamentale per la tenuta di un genere che nel suo essere percepito ormai come “presente” rischia di perdere del tutto lo slancio sperimentale che ne ha segnato l’inizio. Che poi, a ben pensarci il cosiddetto (grazie Simon) post rock è definibile più che altro in negativo, cioè per ciò che non è più che per quello in cui veramente consiste: non è il susseguirsi delle strutture tipiche della forma canzone, non è (spesso) il cantato tradizionale, non è il riff di matrice rock, ecc. Tutto questo implica che in quanto genere ben definito, ha avuto da sempre la necessità di una materia prima più tradizionale da storpiare, distorcere, fino a creare da questi frammenti apparentemente caotici nuove forme e nuove sonorità, come in una sorta di caleidoscopio musicale.
Another Language viene da lì, è un albero che affonda le radici nel gusto per la stratificazione, per l’improvvisazione e per i climax ad alta dose di trasporto emotivo, ma la direzione presa dai This Will Destroy You tende sempre di più a scorrere come una linea parallela rispetto ad alcuni dei canoni più affermati del genere.
Nasci, cresci e corri con gente come Mogwai e  Godspeed You! Black Emperor (ma andiamo pure a Slint e Tortoise) che ha già detto la sua e non si tratta di sussurri ma di boati che hanno segnato la musica; se non bastasse vieni dal Texas come gli Explosions In The Sky.
Allora “che fare?” come direbbe un Vladimir Il’ič Ul’janov a caso.
Il deficit sicuramente presente rispetto ai nomi citati per quanto riguarda il pathos drammatico o il tessere complicate strutture chitarristiche, i TWDY l’hanno sempre bypassato grazie ad un’innata capacità nel creare atmosfere rarefatte, spesso plumbee; una sorta di temporale percepito in lontananza ma sempre in agguato.
Ad essere più specifici in realtà gli inizi facevano pensare ad una versione pressoché canonica del genere. Pensiamo ad esempio a pezzi come The World Is Our___ , There Are Some Remedies Worse Than The Disease, ecc. L’album d’esordio accanto al classico Threads presentava invece già le aperture ai grandi spazi di Villa del Refugio e The Mighty Rio Grande. È però con il sophomore Tunnel Blanket che la deriva eterea si fa evidente: non v’è più traccia dell’equilibrio scozzese o delle sinfonie-per-chitarre-postatomiche dei conterranei, ormai è rimasta solo un’alternanza drammatica tra episodi ambient ed improvvise deflagrazioni. Il risultato è un cupo avvilupparsi dei brani uno dietro l’altro; l’effetto sull’ascoltatore è paragonabile all’essere preso a schiaffi e poi accarezzato senza soluzione di continuità. Non mi è mai capitato ma penso che risulti abbastanza straniante.
Visto che mi ricordo di discorsi belli tondi e ragionevoli se il primo album quieto e triste (al punto giusto) era la tesi e il secondo con la sua schizofrenia l’antitesi, Another Language può essere definito una sintesi di questi elementi. Meno ombroso di Tunnel Blanket ma sempre fedele alla dilatazione atmosferica del lavoro precedente, si sviluppa attraverso appunto un nuovo linguaggio. È presente quindi una non celata ambizione di rinnovamento, che si traduce non solo nella ricerca di un proprio percorso artistico ma anche, io ritengo, nella volontà di dar prova della vitalità di un genere che può fare paradossalmente del suo essere post una fonte di auto-indulgenza/compiacimento, diventando in questo modo nient’altro che vecchio.

Ci sono riusciti? Sì e no.
New Topia si rifà sicuramente alla cara vecchia reiterazione del leit motiv seguita dall’inevitabile valanga conclusiva, di quelle che ti fanno andare su e giù con la testa manco avessi il Parkinson. Il brano è sicuramente ben congeniato, tuttavia dall’outro si comincia a percepire una certa stratificazione di troppo, quasi che avessero intenzionalmente aggiunto dosi massicce di sporcizia glitch. Per quanto si tratti comunque di intermezzi, l’effetto di questo sovraccarico sparso un po’ in tutto l’album è talvolta disturbante e si rischia la perdita d’attenzione.
Percussioni ovunque, batterie che crescono su altre batterie; un trucco questo dell’aggiungere effetti alla sezione ritmica che verrà ripreso anche nella successiva Dustism, primo singolo estratto.
Se Serpent Mound e War Prayer segnano l’avvicinarsi dei tuoni, The Puritan e Mother Opiate sono l’occhio del ciclone, il momento di calma piatta sempre carico d’ansia. Si torna a vibrare colla suggestiva Invitation, costruita sopra un pattern ritmico ripetuto e il successivo crescere delle chitarre con il contributo di quella tastierina à la Mogwai che dirvi non so.
A chiudere le danze la neutra Memory Loss che suona tanto come gli ultimi singulti rabbiosi prima della schiarita di God’s Teeth.

Bilancio: questo Another Language non ci ha ancora distrutto. Forse ciò che manca davvero è un concetto chiaro alla base di tutto, per poter incanalare le capacità compositive che sicuramente i nostri hanno verso qualcosa che suoni meno costruito e più sentito, perché vabbenevabbene l’innovazione e il post-post ma se mancano le lacrime finisce che diventi una macchina.

Tracce consigliate: Dustism, Invitation.