I dischi che mi son veramente piaciuti quest’anno ruotano tutti attorno alle varie diramazioni del post-hardcore: dalla spazialità emo dei Title Fight fino alle Fugaz-ci sferzate dei Pile, folkeggiando di tanto in tanto nel loro midollo a stelle e strisce. Insomma, un’America ormai stanca dell’R’n’b e dell’Hip Hop che vuole estirpare questo lungo periodo dominato dalla “musica nera”, cercando con gli strumenti classici del Rock ed il rumore di sbiancare la fuliggine vulcanica.

Soko è francese, e l’America, musicalmente parlando è distante. Dopo il suo debutto intimista: I Thought I Was An Alien, esplode con il sophomore My Dreams Dictate My Reality. Quando ero più giovine e sbarbatello, avevo grandi difficoltà ad interpretare due generi musicali come la psichedelia e il dark. Problema che (spero) abbiano avuto tutti quelli della mia generazione: I Jefferson Airplane psichedelici? Ma sentiamoci gli Spacemen 3 che mi fanno provare le droghe senza abusarne, oppure, ma i Cure o i Bauhaus non saranno mica così oscuri! Ci sono substrati del metal talmente gutturali che mi fanno vibrare le budella solo a pensarci. Errore di gioventù, la psichedelia può essere circolare anche senza premere sul bottone dello spirito, talmente forte, da farci gridare il cervello; così come la darkwave non deve essere prettamente oscura nel senso di grave tristezza o di sonorità horrorifiche, come poi dimostrerà il dreampop, ben più di una costola del dark. Per Soko, possiamo parlare addirittura di goth pop.

Se il duo iniziale (I Come In Peace, Ocean Of Tears) può lasciare un po’ di amaro in bocca, il resto del disco raggiunge ottimi momenti post-punk: una figlia illegittima di Siouxsie Sioux, che per una stagione sostituisce l’altra transalpina Jehnny Beth delle Savages (Who Where The Pants??), e Robert Smith dei Cure (My Precious). La title track mi ha ricordato il prog rock e la cosa non deve assolutamente intimorire, anzi, la crepuscolarità e la posizione centrale nel disco fa da spartiacque e la innalzano ad inno dark. Peter Pan Syndrome è la canzone che avrebbe fatto lo zombie di Ian Curtis con i New Order, Lovetrap si avvicina di più ad atmosfere new romantic senza cedersi totalmente, duettando con Ariel Pink (come in Monster Love), mai canzone fu più adatta. Se con la penultima, Visions, si ritorna alle atmosfere della title track, con la conclusiva Keaton’s Song si cede spazio ad una chitarra acustica e ad una sinfonia d’archi, un’intimità profonda che conclude un album al di sopra delle aspettative iniziali.

Il pelo nell’uovo è solo ed esclusivamente il ritardo nei tempi, il revival post punk è terminato da molto tempoe potrebbe suonare doppiamente anacronistico. Ma una buonissima produzione, delle canzoni che restano facilmente in testa e l’omogeneità del lavoro, lo fanno diventare una delle più belle sorprese di questo 2015.

Traccia consigliata: Lovetrap, Peter Pan Syndrome