Se l’interrogativo a cavallo tra il 2013 e il 2014 era “è nato prima il revival o la reunion?”, è dalla seconda metà del 2014 che i frutti di questi ritorni dimostrano di averne colto al meglio lo spirito. Parlando di revival parliamo soprattutto di emo ma non solo: se è vero che tornano American Football e Mineral, è altrettanto vero che tornano anche Slint e Slowdive. Nel frattempo, band come The World Is a Beautiful Place and I Am No Longer Afraid to Die, che già cavalcano l’onda da qualche tempo, prendono sempre più piede.
I frutti, come dicevamo, li si vedono nel tardo 2014, in parte con i La Dispute ma soprattutto con i Pianos Become the Teeth che, nate come band post-hardcore/screamo, si avvicinano sempre di più a generi come post-rock e shoegaze, dando spazio a uno slowcore dal linguaggio più maturo e melodico.

Ed è qui che si inseriscono i Title Fight, e parlare del contesto in cui nasce Hyperview è importante, perché anche il loro è un caso di maturazione, di evoluzione sfacciata e al passo coi tempi: dall’hardcore melodico e dai ritornelli punk-rock dall’appeal adolescenziale, con Hyperview i quattro dimenticano quasi del tutto lo scream, mettendo invece in risalto le voci in riverbero di Jamie Rhoden e Ned Russin, creando atmosfere eteree ma al contempo cavernose e soffocanti.

Le tematiche stesse si fanno più oscure: abbandonate quasi del tutto le incertezze adolescenziali di Shed (2011), qui c’è invece la consapevolezza che il modo per affrancarsi dall’oscurità è di dominarla, abusarne, nel tentativo finale di neutralizzarla; è un modo paradossale ma stilisticamente affascinante di trasmettere un messaggio positivo, di rinascita. Il pezzo di apertura è un imperativo, Murder Your Memory, che più o meno ironicamente vale anche rispetto al passato della band stessa, ed è un brano che ruota attorno a quel verso ripetuto, circondato e immerso tra chitarre shoegaze.
Parlare delle tracce singole di Hyperview è reso difficile dalla sua struttura, che lo rende fruibile al meglio se ascoltato per intero; c’è un filo conduttore che rende il disco un’opera coerente, ma ciononostante ogni brano ha i suoi lati di forza, che lo rendono un potenziale ‘singolo’ in tutti i sensi: dopo l’introduzione, il quartetto della Pennsylvania ospita voci post-punk (Chlorine, Don’t Count on Me), riff punk-rock (Mrahc), suggestioni vagamente post-rock (la bellissima Your Pain Is Mine Now), e un’immancabile ballata (Dizzy), qui proposta con coda noise. Degno di particolare nota è il singolo Rose of Sharon, in cui – più che in altri brani – i Title Fight strizzano l’occhio al dreampop dei primi anni ’10 e, come fa notare anche Ian Cohen su Twitter, dimostrano di saper ‘fare’ l’indie-rock meglio di chi l’indie-rock lo fa di mestiere.

L’album, già criticato dai puristi, in realtà non è per nulla slacciato dai Title Fight passati, e per questo motivo si inserisce nella storia personale della band come un’evoluzione razionale piuttosto che uno sfacciato cavalcamento dell’onda; c’è del nuovo nel vecchio e c’è del vecchio nel nuovo: basti pensare a Head in the Ceiling Fan di Floral Green (2012) che un po’ richiama Your Pain Is Mine Now, e la sinergia tra i due versanti funziona. E maturare è giusto, perché da band vorresti che il tuo pubblico crescesse con te, e non solo grazie a te. Poi diciamocelo: l’onda la cavalcano, e ne siamo al corrente tutti, ma quanto è sbagliato farlo se riesci a dimostrare di possedere la maturità artistica giusta per creare un prodotto più che interessante?

Tracce consigliate: Rose of Sharon, Your Pain Is Mine Now.