[Disclaimer] Questa recensione non ha senso perché questo disco non ha senso. No, sul serio: gli manca solo il reggaeton. E tutti sanno che il reggaeton è l’anticristo.

Negli ultimi tempi qui su Deer Waves vi abbiamo parlato di Poptimism e vi abbiamo parlato pure benino dell’ultimo album di Justin Bieber, Purpose. Eppure non temete, prodi cervi, ché i One Direction non fanno parte né dell’una né dell’altra categoria. I One Direction continuano ad essere un ossimoro vivente, continuano a non avere alcun senso apparente (se non quello di essere discutibilmente bellocci), e ascoltare tutte le diciassette tracce di Made in the A.M. è stato così distruttivo che ho attraversato le cinque fasi del dolore di Homer Simpson quando scopre che gli restano 24 ore di vita.

L’assenza di senso alcuno della boyband britannica non si è fermata neanche di fronte all’abbandono del quinto 1D Zayn Malik (quello che era stato scelto per dare un tono multietnico al gruppo), che purtroppo era uno dei tre che cantavano davvero, difatti in questo disco si sente un po’ la discutibile mancanza dei suoi yeeeee e dei suoi oooooh. Nella band è rimasto Harry Styles, che oggi che ha la voce meno infantile si atteggia a giovane Mick Jagger pre-eroina ma post-Adderall; poi c’è Liam Payne, che è quello delle Midlands a cui fanno cantare le strofe delle canzoni; e poi ci sono gli altri due, quello arancione e quello irlandese (sempre per dare spazio alle ex-colonie). Ecco, con l’uscita di Malik dal gruppo questi due smettono di fingere di cantare, e l’irlandese imbraccia addirittura una chitarra (!). Non che questi dettagli aiutino, eh.

Tra le fasi del dolore ce n’è stata una molto attiva, quella in in cui mi divertivo: Made in the A.M. è così brutto che fa il giro e diventa un capolavoro, un po’ come Jersey Shore o The Lady di Lory Del Santo. È così per almeno la prima metà del disco, che ad esempio inizia con un brano che si chiama Hey Angel e che ovviamente si apre con un organo. E jaaa, ma siamo seri? Eppure la poesia di versi come “I wish I could be more like you, do you wish you could be more like me?” non si ferma qui, e anzi si dà all’edonismo con il singolo Perfect:

“But if you like causing trouble up in hotel rooms
And if you like having secret little rendezvous
If you like to do the things you know that we shouldn’t do
Then baby, I’m perfect”

(Che poi, ‘sta storia delle camere d’hotel a me ha ricordato quell’altra vicenda riguardante Il Volo…)
Il disco continua in modo quasi futurista tra una strofa reggae (!) messa a caso nel mezzo di un singolo di un pop quasi decente (Drag Me Down), che però si butta su un autotune così pesante che sembra un featuring con Adam Levine, tra una specie di ballata à la Robbie Williams con il drop tamarro di David Guetta o qualcuno del genere (Infinity), passando per un assolo di chitarra di Joe Satriani finale su una canzone con così tanti generi che diventa quasi sperimentale (If I Could Fly). Ma ehi, non dimentichiamo la world music! Sennò dove li mettiamo i bonghi? Sono in Never Enough, se ve lo stavate chiedendo. C’è così tanto Zang Tumb Tumb nelle prime otto tracce che pare di essere alle giostre, e l’unica a salvarsi sarebbe Long Way Down, se solo non fosse un pezzo palesemente rubato a Ed Sheeran.

Nella seconda parte, che poi è un po’ quella dell’accettazione del dolore, ci sono le chitarrelle rubate qua e là tra gli anni ’60 (Olivia) e i coretti e clap-clap dei Mumford and Sons nei loro periodi peggiori, oltre a un plagio di One Way or Another dei Blondie (Temporary Fix). Con l’accettazione del dolore i 1D diventano soporiferi, perché il disco perde quel suo fascino nonsense e diventa semplicemente musica brutta e basta – continuando con le analogie, un po’ come quando JWOWW in Jersey Shore si fidanza e smette di strappare le extension a chiunque le capiti a tiro.

La cosa bella di questo disco è che io l’ho ascoltato così voi non siete costretti a farlo. La cosa brutta di questo disco è che i One Direction si sono anche presi un anno sabbatico per dedicarsi ai loro progetti solisti, che significa non uno, ma potenzialmente ben cinque dischi brutti (sempre che i due inutili riescano a combinare qualcosa che non sia zompettare sul palco).

Traccia consigliata: Long Way Down