Providence è nato in un breve lasso di tempo, specialmente in confronto agli anni di silenzio che lo precedono, interamente prodotto con un sintetizzatore (il Korg Prophecy) entrato in commercio oltre venti anni fa. Nathan Fake si allontana dalle sue più caratteristiche sonorità techno, abbandonando il dancefloor per la sperimentazione. Eco dei tre album qui sopra si ritrovano per tutto il disco, ispirazioni declinate in modo diverso ma innegabili.
Nella transizione dal tempo scandito dalle batterie a quello che scivola addosso, nell’esplorazione ai confini delle possibilità del mezzo usato stanno i pregi ed i limiti di questo ultimo lavoro targato Ninja Tuna, a garanzia della qualità.

La sperimentazione.

Per quanto Providence sia esplicitamente diverso da ciò che lo precede, il cambiamento in questione non annuncia una rivoluzione e non presenta tratti radicali. Sono suoni e strutture insolite per il produttore britannico, ma sarebbe facile tracciare le influenze ed incasellare le tracce ed il disco in generi e correnti, volendo. Non siamo di fronte ad un album di Holly Herndon, Ash Koosha o OPN. Per apprezzare il disco non serve abbandonare ogni certezza riguardo ciò che si ascolta e anzi, si torna spesso ad insistere su un certo tipo di costruzione del pezzo (più nel dettaglio in seguito). Di cosa si parla allora?
L’utilizzo di un solo sintetizzatore per tutte e dodici le tracce assicura una buona coesione all’album e Fake è bravo ad evitare la ripetitività creando pezzi distinti ed essenziali, niente filler o divagazioni. Un pezzo come HoursDaysMonthsSeasons è, nella sua irrequietezza, appositamente costruito per suonare così. Il lavoro dietro si nota (forse anche troppo, per certi versi) e l’associazione tra il titolo ed il brano è immediata, ben fatto.
Se questo vale anche per i brani più corti sparsi per la tracklist, senza eccezioni, The Equator & I e unen soffrono per una collocazione scomoda. Il contrasto tra loro è bello, – il primo è un pezzo ondivago e sonoro, il secondo calmo e ambientale – ma arrivano subito dopo quelle che è il pezzo più bello e deciso di tutto il progetto: DEGREELESNESS.

La struttura.

In Providence nulla è lasciato a caso, a dispetto del nome. C’è in generale una separazione tra le tracce segnalata dai titoli, cosa che può sembrare strana ma è molto evidente.
Posizionati all’inizio, alla fine e nel punto di mezzo, i tre brani privati della maiuscola iniziale sono quelli in cui la sperimentazione e l’astrazione sono maggiori. Si sente la soddisfazione per il ritorno alla produzione e la creatività ritrovata, come lo stesso Fake ha dichiarato.
Ben oltre le vocals cupe e sporche, il peso di Prurient in DEGREELESNESS è rivelato dai layer sonori che si accavallano incessantemente per otto necessari minuti, con la tecnica e le abilità proprie a Dominick Fernow. Qui viene sfruttata al meglio, ma la stessa costruzione è presente anche in PROVIDENCE, REMAIN (e tutti gli altri pezzi dal titolo in caps lock) richiamando le produzioni di Benjamin John Power in primis, più alla lontana Ben Frost e Forest Swords. Questi sono inoltre gli unici pezzi in cui si possa sentire una batteria, anche se usata in maniera meno convenzionale.
SmallCityLights, Radio Spiritworld ed i rimanenti sono a metà tra i due caratteri visti sopra. Meno solidi di questi ultimi ma con un indirizzo più preciso dei primi, son quelli in cui i limiti del Korg Prophecy diventano più evidenti.

Nathan Fake ritorna dopo anni di assenza con un disco che sfugge alle previsioni ma non disattende le aspettative. Accantonate definitivamente le atmosfere dei dischi precedenti, si avventura in territori nuovi con una capacità che non deve sorprendere. Providence non riesce a compiere il passaggio da buono ad ottimo disco, ma non è qualcosa di cui lamentarsi. C’è davvero quasi tutto qui.

Tracce consigliate: DEGREELESNESS, RVK