Negli ultimi cinque anni Stott ha lavorato con ottimi risultati alla costruzione di un suo mondo acustico sempre più solido. Si tratta di un mondo terribile, una distopia sonora di terre deserte, infestate dallo spettro di Alison Skidmore che lo accompagna ormai dalla discesa infernale di Luxury Problems, passando per gli scenari apocalittici (che ricordano Dark Souls più che Fallout) di Faith In Strangers.
Too Many Voices è un universo nuovo, sorprendentemente il più accessibile. Non aspettatevi che Stott rinneghi il suo passato: echi degli album precedenti sono presenti in ogni pezzo, ma se in alcuni casi le ripetizioni diventano ossessive (First Night è un loop di quasi sei minuti con variazioni minuscole) non sono mai soffocanti. Le due novità più grosse sono la rottura del concetto di album-monolite e la presenza di Butterflies, che è un pezzo a sé.

La prima frase vuole dire che il disco segue direzioni diverse, che la solidità di cui parlavo all’inizio diventa spuria. Se negli ultimi due progetti ogni brano esisteva soprattutto in funzione degli altri, rappresentando solo una parte di un film interamente in piano sequenza, qui ogni brano rappresenta uno stacco, una scena nuova. Selfish mostra proprio questo. Una voce, in tonalità diverse, che si inserisce tra loop di batterie distorte à la Rabit e che va dritta verso la follia. Stott è uno scultore che inizia a lavorare sulle sue vecchie statue invece che sul blocco di marmo, e poi inizia a buttarci vernice sopra. Rispetto al resto, Too Many Voices è sicuramente arte moderna.
La scelta di Butterflies come singolo è significativa, il brano è molto diverso dal resto dell’album e da qualunque cosa mai partorita dal produttore di Manchester. C’è dell’RnB, ci sono le distorsioni, sembra un pezzo di Jessy Lanza remixato da Arca. Non esattamente la prima cosa che viene in mente pensando a Stott. Col passare del tempo e a furia di riascoltare il disco la cosa diventa meno stridente, ma il primo impatto è quello. Straniante, non necessariamente brutto.

Nel complesso questa nuova direzione ha un senso e non indica un miglioramento o un peggioramento. È vero che alcuni pezzi avrebbero potuto trovare spazio in altri album e qui finiscono per risultare poco incisivi (Over e Waiting For You sono decisamente sottotono). Il disco però si regge benissimo sui pezzi migliori, che da soli valgono l’ascolto (anche molti più di uno). In particolare, la conclusione è uno dei pezzi migliori dell’artista per genialità e costruzione, interamente basato sulla voce di Skidmore che funge da strumento principale e coro contemporaneamente.
Negli ultimi cinque anni Stott ha lavorato con ottimi risultati alla costruzione di dischi sempre più solidi. Si tratta di dischi angoscianti e nostalgici, brutali ed evocativi. Soprattutto, si tratta di dischi belli ed intensi, come questo Too Many Voices.

Tracce consigliate:  Too Many Voices, New Romantic