È il 1993 e ci sono due ragazzini che camminano per i corridoi di una scuola superiore del New Jersey. Uno dei due è biondo, si chiama Paul, si è appena trasferito dalla Spagna ed è nato in Inghilterra. L’altro, Josh, ha lunghi ricci neri e non si è mai spostato molto da lì. I due parlano di musica, da Bowie a Waits, dagli Smiths ai Cure, dalle chitarre anni ’70 alle tastiere anni ’80. Sono amici, Paul e Josh, ed è forse per questo che meno di dieci anni dopo si trovano a suonare insieme, nella New York post 11/9. Paul è da poco entrato in una band che fatica a trovare un nome, Josh invece muove i primi passi nel mondo della produzione musicale. Entrambi conoscono un certo Matt, un batterista con il quale si trovano a collaborare più volte in separata sede, ma bisogna aspettare il 2015 perché i tre si incontrino tutti insieme.

Nel frattempo, la band di Paul non solo trova un nome, ma anche fama globale, e la lista di dischi in cui c’è lo zampino di Josh si allunga sempre di più, tanto da includere un certo Sleep Well Beast poco più di due anni dopo. Fatto sta che Paul allestisce uno studio di registrazione a Philadelphia e invita i suoi vecchi amici Josh e Matt a suonare, mettendo in piedi delle jam session influenzate proprio dalla musica di cui parlavano più di vent’anni prima, nei corridoi di quella scuola del New Jersey. Cinque anni più tardi quelle jam session sono diventate un disco e Paul, Josh e Matt sono diventati i Muzz.

Capire la storia di Paul e Josh è fondamentale per ascoltare questo disco: se infatti da un supergruppo ci si aspetterebbe un mash up degli stili dei diversi componenti, il primo lavoro dei Muzz è distante tanto dagli Interpol di Paul quanto dai Bonny Light Horseman di Josh, ma è incredibilmente vicino a ciò che li ha ispirati. Questo si nota fin dall’apertura di Bad Feeling: tutto suona familiare, disteso, piacevole e coinvolgente. Nelle dodici tracce che compongono questo primo lavoro, i Muzz non esplorano nessun nuovo territorio, non sperimentano nulla, non si fanno pionieri di generi o modi di fare musica innovativi, tutte cose che a loro modo hanno già fatto in passato. Con questo disco Paul, Josh e Matt si fanno da parte e suonano quasi più per loro stessi che per un pubblico, ricordando da vicino i gruppi e i suoni con cui sono cresciuti. Dal giro di basso e le chitarre blues di Evergreen ai cori di Broken Tambourine, dai ritmi accelerati di Knuckleduster a quelli rilassati di Chubby Checker, tutto nei Muzz suona genuino e pulito, proprio come tre amici che si trovano a suonare quella musica con cui sono cresciuti.

Muzz è quindi un disco strano da valutare. Impossibile considerarlo a prescindere dalle carriere dei suoi illustri membri, ma allo stesso tempo dotato di una verve tutta sua. Non stiamo parlando di un capolavoro, né tantomeno di un disco che farà la storia della musica, per carità. Musicalmente si tratta di un bel disco, per quanto la voce di Paul Banks sia sempre una meraviglia da ascoltare – e il voto in testa alla recensione riflette anche questo.
Non sarebbe giusto però parlare di questo album solo in termini di musica. Muzz è prima di tutto un disco emozionante, di quelli che ti lasciano un sorriso nostalgico sulle labbra, che ti fanno venire voglia di chiamare i tuoi amici e ascoltare musica insieme in una tiepida sera d’estate. Più di ogni altra cosa, Muzz ci ricorda che veniamo tutti da qualche parte, e che ogni tanto è bello tornarci.

Tracce consigliate: Bad Feeling, Broken Tambourine, Trinidad