È sempre bello quando esce un disco di Julia Holter: non sai bene cosa aspettarti, ma sai che ti piacerà.
La cantautrice nativa di Los Angeles  ha dimostrato, in poco tempo, di essere un’artista versatile e complessa, consolidandosi già come una certezza nel mondo musicale indipendente. In soli tre album è riuscita a stupire, partorendo  lavori sempre validi ma completamente diversi: con l’esordio, Tragedy, si butta sulla pura avanguardia, in Ekstasis (il preferito di chi scrive) ci porta in un mondo onirico attraverso un ambient ovattato, mentre nell’ultimo Loud City Song, troviamo un’atmosfera più concreta e un uso maggiore della strumentazione classica.
Tre piccoli capolavori, che le sono valsi un’approvazione pressoché unanime da parte della critica. Dal canto suo, Julia, non sembra proprio crogiolarsi nei complimenti, ma anzi continua a sperimentare.
In lei ritroviamo proprio la classica antidiva: look tranquillo, zero copertine e un’eterna voglia di mettersi alla prova. Eccoci dunque a Have You In My Wilderness: questo il titolo dell’ultimo episodio dell’evoluzione artistica della cantante.
Sembra ormai definitivamente superata la fase lo-fi che l’ha caratterizzata ad inizio carriera (forse dovuta anche ad esigenze economiche),  a discapito di un maggior uso di strumenti orchestrali, senza però abbandonare definitivamente l’uso dell’elettronica. A non cambiare mai è il livello delle liriche, sempre originali ed evocative: Julia ha un talento naturale nel rendere vivi i propri mondi interiori.
Potremmo definire, questo suo quarto disco, una sorta di sintesi della sua carriera: ci sono elementi di tutte le sue passate esperienze, affinati e rielaborati in una forma più convenzionale del solito. La voce è pulita, come ci accorgiamo già dall’opener Feel You, brano elegante e solare, con gli archi che ne disegnano la direzione. Archi che pur cambiando d’umore, rimangono protagonisti anche nei due brani successivi Silhouette e How Long?, mentre più sperimentale è Lucette Stranded On The Island, dove usa il proprio eco quasi come uno strumento. La titletrack è il pezzo più ambient del lotto, impreziosita da pianoforte e violini ipnotici, mentre troviamo persino delle tracce di jazz in Sea Calls Me Home e Vasquez, un vero e proprio pezzo di bravura, in cui si ritorna a strizzare l’occhio all’avanguardia.
Anche stavolta, di delusioni, nemmeno l’ombra. Ancora livelli altissimi per la Holter, che si consacra definitivamente come una delle migliori artiste in circolazione.
Peccato che, non avendo atteggiamenti da baldraccone, difficilmente il suo pubblico crescerà fuori dall’attuale nicchia. Intanto complimenti a lei, che sta riscrivendo, pagina dopo pagina, la storia del cantautorato moderno.

Tracce consigliate: Vasquez, Lucette Stranded On The Island