Possono quattro minuti e ventidue secondi cambiare per sempre la storia di una band? Nel caso dei Future Islands, sì. È inutile negarlo, il punto di svolta nella carriera di Samuel T. Herring e soci è sicuramente rappresentato dalla straordinaria performance di Seasons (Waiting on You) al Late Show with David Letterman nel 2014. L’endorsement di uno dei conduttori televisivi più popolari degli ultimi 40 anni negli USA aveva fatto da trampolino di lancio mediatico; l’uscita del meraviglioso Singles, primo disco pubblicato con l’etichetta 4AD, aveva poi fatto il resto. Il successivo The Far Field, uscito tre anni più tardi, proseguiva sulla medesima scia: la cifra stilistica del gruppo di Baltimora, che fin dagli esordi aveva strizzato più di un occhio al synth-pop e alla new wave, di fatto si riconfermava anche qui – forse al fine di capitalizzare al massimo il successo del predecessore.

As Long As You Are si presenta, invece, con premesse profondamente differenti: innanzitutto nei rapporti interni al gruppo, con l’ingresso in pianta stabile di Mike Lowry alla batteria e alla scrittura accanto al terzetto ormai collaudato. Poi nelle fasi del processo creativo, caratterizzate da una lunga gestazione tra scrittura, registrazioni, ri-scrittura e ri-registrazioni del disco – un periodo necessario alla band per fermarsi, prendere fiato e tirare un bilancio di questi primi dodici anni di carriera. Infine a livello di contenuti, con la quasi totale assenza di instant anthems, marchio di fabbrica in casa Future Islands, che qui lasciano spazio a episodi più cupi e introspettivi. Il risultato è un lavoro che volge lo sguardo verso il passato aprendosi contemporaneamente al futuro; un album che ricuce definitivamente vecchie ferite portando a chiusura un capitolo nella carriera del gruppo.

Who am I?

Why do I deserve the sea again?

After all I’ve done

And finding love in the end

È un Samuel T. Herring votato all’auto-analisi, quello che ci troviamo di fronte fin dall’incipit dell’eterea Glada, in cui le sue riflessioni su vita, amore e sul proprio posto nel mondo vengono messe al servizio delle delicate tastiere di Gerrit Welmers. Quesiti che ritorneranno, a metà disco, trafitti dal basso tagliente e da synth sognanti nella pulsante Waking (“I’ve been sitting here thinking / What’s my purpose? / What’s the meaning?”). Non è un caso, quindi, che l’irruenza e la grinta tipica di Herring appaia, per quasi tutta la durata di As Long As You Are, più composta e trattenuta: da questo punto di vista, l’oscura doppietta I Knew You e City’s Face ne è un chiaro esempio. La prima, impregnata di synth malinconici e morbide percussioni, affronta la tossicità di vecchie relazioni del frontman, seguita a stretto giro dalla seconda che si concentra maggiormente sugli effetti che queste producono.

Fear of black and yellow

Is pushing in the blue

Here, I made a willow

Traces of you

I grandi dubbi vengono momentaneamente accantonati quando la band sente prepotente il richiamo della tornata elettorale negli USA, sempre più imminente e mai così tanto radicalizzata come quest’anno. E qui, Born to War e The Painter rappresentano due facce della stessa medaglia, due brani in cui la politica americana entra a gamba tesa tra i giri di basso e gli ipnotici sintetizzatori di Welmers.

Nobody gonna pick me up

I’m falling down

Poco prima della chiusura, però, c’è ancora tempo per prendersi un bel cazzotto in faccia con Thrill, forse il miglior pezzo dell’album. Costruita attorno a un pattern di batteria, è una dolorosa ballata in cui riusciamo a percepire tutta la disperazione e l’intensità nella voce e nelle liriche di Herring – ancor di più dopo aver visto il video ufficiale.

Con As Long As You Are, i Future Islands sembrano voler chiudere un ciclo – iniziato dopo quei quattro minuti e ventidue secondi citati in apertura di recensione. Avrebbero potuto continuare a fare per sempre i Future Islands, invece hanno scelto la strada più complicata: rallentare, guardare indietro e mettere in discussione tutto ciò che avevano sapientemente costruito nell’ultimo decennio. Si tratta probabilmente di un lavoro di passaggio nella discografia del gruppo, ma non per questo privo di onestà e audacia. Nonostante la mancanza di singoli killer, i quattro di Baltimora ci consegnano un album preciso e coinvolgente dalla prima all’undicesima traccia. Pronti per abbracciare una nuova fase della propria carriera. E noi siamo qui ad attenderli.

Tracce consigliate: Born in a War, Waking, Thrill