C’è chi ha un migliore amico immaginario. C’è chi ha il gatto, chi il cane. Chi ha un amico vero. Conor Oberst ha la penna e la chitarra. La imbraccia e canta le sue storie. Lo fa dal 93, quando incise la sua prima cassettina. Aveva 13 anni. Adesso ne ha 34 di acqua sotto i ponti ne è passata tantissima: Bright Eyes, Desaparecidos, The Faint, Conor Oberst and the Mystic Valley Band. E poi tutti i suoi album solisti, il sesto e ultimo dei quali è questo Upside Down Mountain. A occhio e croce il ventesimo circa della sua carriera.

Cosa ci si può aspettare dal ventesimo disco di un trentaquattrenne i cui anni d’oro si presumono superati, ma ancora tangibilmente gloriosi a ogni – ennesima – riproduzione di I’m Wide Awake, It’s Morning (Dio sempre l’abbia in gloria)? Tutto e niente. Tutto e niente già. Il talento è tanto, ma non si sa mai quando finirà, se finirà, se riesploderà. Sono aspettative e sentimenti contrastanti.
In Upside Down Mountain il marchio di fabbrica è sempre presente: la malinconia, il sorriso amaro, un guardarsi indietro con una condiscendenza figlia di non si sa bene cosa. Ci sono anche il country, il folk, la chitarra acustica e quella elettrica, gli arpeggi e i violini, gli slide, la batteria spazzolata; ci sono quasi a sorpresa anche melodie facilone (a volte un po’ troppo scontate, ma forse anche Conor ha bisogno di certezze ogni tanto), tastiere, cori e ritornelli da cantare. A volte però questa mezza gioia di vivere viene esasperata (cosa questa che coincide quasi sempre con l’ingresso delle chitarre elettriche nell’impalcatura dei pezzi), raggiungendo il sound di una college-band anni 90 un po’ sfigatella. In generale a prevalere è però un’atmosfera da Kentucky, da Tennessee, da redneck con la spiga di grano in bocca e lo sguardo rivolto verso il tramonto (Double Life è davvero un fantastico pezzo cowboy). È tutto diretto, schietto, al bando l’esegesi, Conor ti tira addosso tutto quel che gli passa per la testa.

Insomma Oberst racconta ancora le difficoltà della vita, l’amore, la morte, la pace dei sensi, come ha sempre fatto, con quella voce unica e un’abilità di scrittura innata. D’altro canto non si abbatte a una tristezza invincibile ma si ostina ad andare alla ricerca di qualcosa, e questo è ammirevole.
Anche musicalmente è quasi sempre il solito Conor, ma quando prende l’iniziativa pare osare nelle direzioni sbagliate: forse un’attitudine troppo pop, forse una sfarzosità un po’ in contrasto con il resto, forse preferisco ancora ascoltarmi I’m Wide Awake, It’s Morning.

Traccia consigliata: Double Life