C’è in corso un cambio stagione anomalo, che alterna maltempo piovoso a giornate assolate da fine estate. Non siamo pronti per vivere quest’ottobrata incerta e birichina, il corpo non è pronto. Ci attraggono quegli integratori dalle scatole sgargianti arancioni e gialle, polverine agli agrumi che mentono: dicono che danno energia, ma alla fine c’è sempre sonno.

E in questa già difficilissima situazione di sopravvivenza, poi, il 25 ottobre è arrivato Cry, il secondo disco dei Cigarettes After Sex, che ha drenato dall’organismo quell’ultima misera scorta di dopamina, mantenuta a caro prezzo, alla quale ogni mattina ci aggrappavamo.

Cry è un album di una noia disarmante, una noia che riesce a eguagliare quella che provoca la band quando sta sul palco, una noia che nasconde sotto il lenzuolo di un riverbero continuo e onnipresente, una scarsezza davvero ingiustificabile di inventiva, temi, immagini, parole e poeticità.

È vero, si potrebbe obiettare fin da subito che è il genere a governare quel tipo di suono, dunque “che vogliamo?” e, inoltre, per sillogismo, se parliamo così di Cry, allora già col debut Cigarettes After Sex dovevamo porci questi problemi, perché di fatto, il secondo disco è la stessa identica forma musicale del primo. Ma in realtà il problema subentra proprio ora, perché se Greg Gonzalez all’inizio era riuscito con questa formula a ipnotizzarci, ora, ripetendola uguale, ci ha svegliati dall’incantesimo, tipo Giucas Casella con la gallina. La condizione d’esistenza di Cigarettes After Sex era, infatti, di essere un pezzo unico, un album che nasceva al primo secondo e moriva all’ultimo, stipandosi dentro una scatola ermetica incredibilmente aderente che lo teneva appena fuori dal campo della ripetitività. I Cigarettes After Sex hanno ottenuto il successo grazie proprio alle misure perfette con cui hanno cucito gli abiti del loro primo album. Ogni micro aggiunta sarebbe stata di troppo.

E indovinate che accade con Cry? Arriva l’errore di tracotanza, perché non si è rispettata la conditio sine qua non che reggeva tutta l’impalcatura della precisione di Gonzalez e co.; si ripropone la formula di Cigarettes After Sex, si replica tra l’altro anche male. Il senso della misura è stato asfaltato, c’è una luce accesa nel nuovo lavoro che mostra nitido quel filo sottile che separa il minimale dal banale, quel filo che è il limite ultimo, ormai ampiamente sorpassato, entro cui il dream-pop può sprigionare i suoi cristalli di nostalgia e sentimento. Cry si può riassumere con due titoli che lo compongono, Falling in Love Don’t let me go, ovvero i due orizzonti dell’album: c’è uno che si innamora, c’è uno che vuole stare solo con la persona che ama, sperando che non si lascino mai. Giusto un paio di volte a Gonzalez si ringalluzzisce l’ormone, tra Playboy (riferimento in You’re The Only Good Thing in My Life) e Hentai. Il resto è incredibilmente una nuvola già strasentita di parole, riferimenti e sintagmi semplici semplici che dal significato di dream pop cancellano la parola “dream” e banalizzano la parola “pop”.

I testi di Cry sono infatti una serie di immagini-campione del più superficiale immaginario lirico pop di ogni tempo. Un profluvio di “love”, “kiss”, “lips”, “sweet”, “stay by my side” e immancabili frasoni che enfatizzano gli antipodi tipo “everything is wrong but it’s all right“. Tutto l’immaginario si basa su schemi spiccioli, non c’è mai un momento critico più profondo, non ci sono zone grigie.

A differenza del primo album, Cry inoltre peggiora in questo: nella capacità di avvolgere anche grazie al montaggio dei testi, alla narrazione basata sullo scorcio, sul frame – visto che i riferimenti cinematografici sono sempre sulla bocca del frontman. Le 9 tracce sono più generalizzate, si parla di amore nella maniera più dualistica possibile, una sorta di odi et amo minimale talmente minimale da essere un tripudio di banalità. A nulla può il riverbero “dream” che avvolge tutta la registrazione, anzi, con questo disco, arrivati a metà, non se ne può più dell’effetto, si arriva addirittura a volerlo scacciare come se fosse un moscone (shoegazers di tutto il mondo, unitevi!).

Incredibile come i pezzi del nuovo album risultino la coda piena di sale del debut della band. Le tracce di Cry, più che il piacere delle sigarette dopo il sesso, ricordano l’entropia post-coito che ti fa desiderare l’apocalisse immediata di tutto l’universo, quel sentimento che dura di solito una trentina di secondi, ma che qui si protrae per 40 minuti e mezzo.

E così, in un colpo solo, Greg Gonzalez e la sua vita a quanto pare monotona riescono a far crollare il nuovo castello appena inaugurato, e – cosa peggiore – demolire le fondamenta di quello su cui si erano arroccati trionfanti. I sentori erano chiari, o si cambiava formula, oppure, arrivederci e buonanotte. Sembrava un precetto talmente ovvio. Eppure non lo è stato per il leader della band, a quanto pare. Dunque: arrivederci e buonanotte, Cigarettes After Sex. Ridateci la nostra già-troppo-poca dopamina.

Tracce consigliate: quelle che volete, sono tutte le stesse, dal 2017.