Oggi vi raccontiamo velocemente i nostri pensieri su una manciata di dischi usciti negli ultimi giorni: il ritorno di Washed Out e degli Algiers, il cambio di rotta (riuscito, più o meno) di Calvin Harris, la nostra Caterina Barbieri e tanto altro.

Lapalux – Ruinism

Il terzo album di Stuart Howard prende il nome dal metodo da lui utilizzato per la realizzazzione dei brani, consiste essenzialmente nell’aver manipolato più volte i campioni di percussioni e sinth fino appunto a rovinarli. L’ispirazione è nata dopo aver scritto la colonna sonora della performance artistica “depart” tenutasi in un cimitero di Londra Est, da qui prende spunto anche il tema della morte, filo conduttore dell’album. Elettronica destrutturata che si fonde con strumenti di musica classica come archi e fagotto (Data Demon), in un viaggio metafisico per quello che è il suo lavoro migliore fino ad oggi, anche grazie agli ospiti che hanno impreziosito questa autentica oper d’arte (JFDR, GABI, Louisahhh, Talvi). Ruinism è la trasposizione in musica di come suona il limbo tra la vita e la morte, composto in maniera a dir poco struggente da un artista di una sensibilità fuori dal comune.

Voto: 7.8 – Mobutu’s Butcher

Caterina Barbieri – Patterns Of Consciousness

Caterina Barbieri ci pone di fronte a noi stessi nel modo che più le riesce naturale: manipolando il proprio iperuranio sonoro. Le sinfonie ambient di Patterns Of Consciousness sanno confortare, destabilizzare, far soffrire. La sofferenza, però, non è mai fine a se stessa e anzi è volta a elevare l’ascoltatore, conducendolo verso picchi di inaspettata purezza (l’incredibile quarto d’ora finale di Gravity That Binds è, personalmente, uno dei momenti migliori dell’anno). Se le basi di partenza sono sempre minimali, tra droni e arpeggi di synth analogici, il risultato è totalizzante: ogni apertura melodica, ogni millimetro guadagnato sui filtri, ogni infinitesimale cambiamento, diventano una densa epifania che rompe la stasi e lega sempre più visceralmente l’ascoltatore al disco.
Dietro l’apparente artificialità della genesi non si nascondono un cyborg o un cervello robotico, bensì un cuore, un animo e un enorme talento compositivo che vogliono sondare l’umano e che sì, ci riescono in pieno. Caterina Barbieri, nell’umile silenzio d’artista, in punta di piedi, ci aiuta a guardarci dentro, smuovendo le nostre certezze, commuovendo.

Voto: 8.0 – Simone Zagari

Calvin Harris – Funk Wav Bounces Vol. 1

Nel quinto album il produttore scozzese abbandona l’EDM per il funk con contaminazioni rap e pop, che sia una svolta sentita o una paraculata non ci è dato sapere, fatto sta che il risultato è buono e credibile al tempo stesso. Con la partecipazione di alcuni dei nomi più caldi del panorama musicale black (tra cui Migos, Frank Ocean, Travis Scott, Pharrell Williams, Snoop Dogg, John Legend, Nicki Minaj, Young Thug, Future) è un disco che scorre piacevolmente dall’inizio alla fine, dal sound marcatamente anni ’80, tra synth tipicamente west coast, bassi potenti e vocoder. Anticipato dalla hit Slide (in compagnia di Frank Ocean e i Migos) contiene altre perle, come Rollin, Heatstroke e Feels, in cui dimostra di sapersi muovere con gusto e stile all’interno di un genere per lui tutto sommato nuovo, riproponendo un suono vintage e moderno al tempo stesso, in cui ha suonato personalmente tutti gli strumenti (Fender Rhodes,Gibson SG Custom,Yamaha C7 Piano,SequentialCircuits Prophet 5, Roland TR-808, Roland Jupiter-8, Ibanez 1200 bass, Wurlitzer Electric Piano, Linn LM-2). Il titolo lascia aperte le porte ad almeno un secondo volume, è proprio il caso di dire once you go black you never go back.

Voto: 6.4 –Mobutu’s Butcher

Algiers – The Underside Of Power

Il secondo disco degli Algiers è un mero perfezionamento del loro primo omonimo lavoro: la loro peculiarità rimane intatta e con essa la continua commistione di post-punk/new wave, rnb, northern soul, gospel, noise rock, industrial, Detroit techno, southern rap che emergono a seconda delle necessità.
L’album scivola via che è un piacere con pochissime note dolenti: si passa da l’incubo di Death March tra Cure e Cabaret Voltaire, all’introduttiva Walk Like A Panther, che ha molto in comune con i Run The Jewels dal solo di sax immerso in droni liquidi e canti gregoriani di Bury Me Standing, al pezzone spacca gambe Cry To The Martyrs figlio legittimo di The Prayer dei Bloc Party.
Gli Algiers vogliono diventare una band da grandi arene e passo dopo passo stanno raggiungendo quell’obiettivo, ora sono ancora in quel limbo in cui staccarsi da quel livello alternative/underground che ancora li contraddistingue, non gli riesce: in Plague Years si assiste ad un mantra industriale che lambisce l’EBM, mentre il singolo Death Grips-iano Animals  è ancora troppo rumoroso e hardcore per poter raggiungere un ampio pubblico. Cleveland è sicuramente la traccia più riuscita del disco, un pezzo gospel immerso nella Detroit techno; The Underside Of Power è un disco con molte pretese che ha bisogno di tempo per essere assimilato a dovere, ma gli manca quel boost necessario per essere qualcosa di più, la speranza è che gli Algiers non snaturino le proprie atmosfere per abbracciare un più convenzionale pop, ma che trovino la summa delle loro anime con personalità e omogeneità.

Voto: 7.7 – Gianluca Marian

Laurel Halo – Dust

Che Laurel Halo si muova negli ambiti dritti della techno, nel moto ondoso di un edulcorato pop elettronico o, ancora, in un intelligente post-clubbing, la sensazione è sempre quella di un talento naturale, slegato da schemi rigidi e limitanti. Lo stesso si può dire per questo Dust, lavoro che mischia piacevolmente un analogico futurismo a ipnagogiche atmosfere estive, quelle umide e un po’ svogliate. Summa e manifesto dell’opera potrebbe essere Moontalk, con il bleep della connesione internet campionato e intersecato tra festanti cumbie dal sapore sudamericano. C’è spazio anche per ritmi ora spezzati ora lontanamente deep, ma anche per un ambient concettuale che vive di rumori e recital poetici. Altra bella riscoperta, poi, è l’utilizzo della voce che bene si mescola a tutti i fervidi elementi che compongono il lavoro. Nella sua totalità, il disco risulta cosparso da un accento talvolta free jazz, talvolta free r’n’b, ora free pop, ora free non lo so.
Quel che è sicuro è che Laurel Halo sia free da tutto, e va bene così.

Voto: 7.5Simone Zagari

Washed Out – Mister Mellow

A stare a sentire l’ultimo lavoro in studio targato Washed Out, quella con Paracosm appare come una parentesi morbida e melodica lungo il percorso chillwave che Ernest Green contribuì a inaugurare col debutto di sei anni fa, perchè con le dodici tracce che compongono Mister Mellow si torna ora alla vocazione originaria. Una mezz’ora di elegante deep house che fa a meno delle doti da songwriting che Green ci aveva mostrato nel sophomore del 2013, per lasciar spazio alla sua estetica lisergica che stavolta passa per origami di sample, atmosfere glam e ritmi tropicali. Le scelte compositive non finiscono mai in esiti scontati. “I need some time so I can find the way to slow down, relax and clear my head”, canta in Burn Out Blues: dietro il danzereccio c’è un’ambizione più profonda, e anche una buona dose di malinconia che diverge dall’easy listening. Eppure, in un flusso che scorre così mellifluo e sensuale da farsi quasi innocuo sottofondo, è significativo il fatto che uno dei pochi episodi che lo interrompe e si distingue dagli altri è quello dei cori onomatopeici sull’uptempo di Hard To Say Goodbye.

Voto: 6.3Maria Pia Diodati

B Boys – Dada

C’era bisogno di un’altra band che pescava dal post-punk più artistico? C’era bisogno di un’altra band che ama Wire, Devo, The Fall, Gang Of Four? Ma non ci sono già Protomartyr, Eagulls, Ought, Preoccupations? E Soprattutto, non sono spiaccicati ai Parquet Courts? Purtroppo o per fortuna è tutto vero.
I B Boys hanno fatto da spalla al tour della band newyorchese e ne hanno assorbito, forse eccessivamente il loro spirito da ubriaconi cazzoni, da hardcore battagliero ma con l’hot dog tra i denti al posto del pugnale.
Dada è adrenalinico, non ha i momenti ossessivi e ansiogeni degl’ultimi dischi dei Courts ma ha un’urgenza (post) punk più riconducibile a quel capolavoro che fu Light Up Gold; ma se esistono già i PC perché ascoltare i loro ancora inesperti allievi? L’unica risposta che posso dare è ascoltare Flatlands e Fade, in questi pezzi c’è tutto il potenziale per essere dei novelli Wire, racchiuso in un due fantastici pezzi, dovrebbe essere questo il punto di partenza dei B Boys, forse ancora troppo timidi per andare oltre ai propri miti.

Voto: 6.6 – Gianluca Marian