Zach Condon takes himself ‘less seriously’ on new album No No No: questo il titolo di un’intervista al deus ex machina dei Beirut in cui mi sono imbattuta di recente. Mossa dal fatto che quel “meno sul serio” mi appariva la perifrasi meno indicata per esplicitare i miei primi umori post ascolto dell’ultima fatica in studio di Condon & soci ho proseguito nella lettura dell’intervista, una roba a cui di rado mi dedico, per scoprire poi che il mio disinteresse per il gossip mi aveva privata di una serie di informazioni da cui sarebbe stato scorretto prescindere nel giudicare la veste in cui il progetto Beirut si presenta oggi.

Se avete amato ogni eccesso dei Beirut di Gulag Orkestar, l’impatto con le nove tracce di cui No No No consta non potrà che degenerare in horror vacui. Non c’è più spazio per gli elementi primari di quel suggestivo folk balcanico: cercherete invano l’enfasi esasperata fatta di ottoni invadenti e litanie che profumano di Est Europa, e per giunta vi sembrerà chiaro che alla rinuncia non corrisponde alcuna contropartita. No No No è un disco così vuoto che al termine dell’ascolto vi verrà voglia di gridare “Oh Zach, bello mio, ma se non avevi voglia chi te l’ha fatto fare? Mica ti ha obbligato il medico”. Ironia della sorte, forse è esattamente così che invece è andata.

I quattro anni che vanno dal 2011 di The Rip Tide ad oggi sembrano esser stati un gran casino per Condon. Meritevoli di menzione tra le varie sventure accadutegli sono, nell’ordine: la fine di una lunga relazione sentimentale, un blocco creativo, un ricovero in Australia per esaurimento nervoso, un tour mandato a puttane.
In quest’ottica il tentativo di rigenerarsi si rivela quindi una necessità umana più che un’opzione artistica.

Comprensibilmente, la risalita di Condon parte dal desiderio di ordinare il caos in elementi semplici, che si tratti del ritmo della propria esistenza o di quello delle sue composizioni. Niente percussioni incalzanti, frenesie di archi, orchestrazioni tronfie e dilanianti.
Incomprensibilmente, la strada intrapresa oscilla tra adagi melodici dalla struttura blanda e un songwriting stringato, in un’ostentazione di spensieratezza che si traduce inevitabilmente in malinconia malcelata.
Una formula che non sortisce altri effetti oltre al rimpianto per il fascino evocativo di cori struggenti e marce barocche (avete mai fatto un giro per Berlino Est con Prenzlauerberg nelle orecchie?): anche stavolta non mancano i brani che portano nomi di luoghi, ma l’incantesimo si è rotto. Gibraltar esordisce cadenzata tra piano e percussioni vagamente etniche, un’eco dimessa della world music del passato. Perth è inframmezzata da vaghi accenni di fiati che ripudiano inquietudini invano. Molto più eloquenti i mesti archi eleganti della strumentale As Needed e il cadenzare lunatico di So Allowed in chiusura, colonna sonora consona a una rehab ancora in corso.

No No No è un disco di cui Condon aveva molto più bisogno di quanto ne avessimo noi. 

Tracce consigliate: So Allowed