Al Bar Della Rabbia, tra un bicchiere di vino e poi un altro ancora, in un vociare fitto e denso spesso interrotto dal fracasso delle tazzine e dei bicchieri che cozzano tra loro, si favella aspettando la prima luce, quando ormai si hanno i denti macchiati di vino e le mogli attendono sull’uscio di casa, vestite della sola vestaglia in pile e delle pantofole, il ritorno dei mariti. Al mattino, nei sobborghi romani, i bambini scorrazzano nei cortili di cemento e i passanti, assorti nei pensieri e presi dalla furia, provano a dribblare i Supersantos lanciati prepotentemente. Qui si mastica la polvere e le gambe portano il peso di vite trascinate sotto il cielo, il quale presto si dimostra meno affabile dello spazio ovattato e familiare che è il bar. Dunque si raggiunge il posto più alto, il luogo che possa meglio descrivere la topografia di ciò che è più in basso. Al Monte ci sale chi, lontano dalla foschia e dalle luci della città, desidera anelare a un sapere terso e a un guardare oggettivo senza ripiegarsi e curvarsi sulla propria persona, ma anzi assaporando le dimensioni del mondo a un attimo dalle stelle.

Il divulgatore e compositore di storie in versi sembrava essere ormai tramontato assieme alla scuola genovese e quella emiliana, le quali, nella seconda metà del secolo appena passato, hanno firmato le maggiori opere della canzone d’autore italiana. Il linguaggio poetico, quello musicale e il terzo elemento semantico, l’interpretazione, parevano territori deturpati da barbarie e appiattiti dello spessore la cui natura artistica richiede.
Alessandro Mannarino è forse oggi l’unico capace di rendere più prossima e immediata la letteratura popolare musicandola e permettendone la ricezione collocando le storie, le emozioni e i sentimenti descritti in questa entro confini che hanno fattezze reali. Unendo insieme la tradizione genovese, fortemente influenzata dallo spirito portoghese malinconico e strumentale, e il modello emiliano – soprattutto bolognese, e dunque di forte impronta politica come anche intellettuale e ideologica – l’eco prodotto fa ben sperare circa le sorti del cantautorato italiano dato per finito.

Al Monte è il terzo album del cantastorie romano; sicuramente più introspettivo dei primi due e, senza dubbio, risultato del gusto romantico della solitudine. La ballata, elemento onnipresente nelle composizioni, e pacata e narrativa, figura scrupolosamente i margini della società combinandosi con l’arte intellettuale del giudicare mai basso, certo schierato, e di un certo profilo intellettuale che può apparire a tratti elitario e di nicchia. Il riverbero, tuttavia, delle personali idee nel parlato musicato, che corre libero fino a divenire protagonista a scapito della melodia (Al Monte), denuda la nobile intenzione di generare una musica che possa essere intelligente in un dialogato e irreligioso e critico circa il mal funzionante baraccone che è lo Stato (L’impero), mostrando sempre una spiccata attenzione alle minoranze (Scendi Giù). Quindi l’asprezza della vita manipolata raccontata in Malamor e la religiosità epidermica dei dogmi accettati acriticamente in Deija; Gli Animali, colorata di cori e scrittura accesa, canta il nostro mondo, i suoi tranelli -“bisogna sapè distingue la luce delle stelle da quella delle lampare”-, e i poli di un continuum sempre meno equilibrato che regola e muove i fili della storia; l’elemento affettivo: l’innamoramento e il distacco, guardati con gli occhi semplici della quotidianità (Gente). Tutto riferito e narrato nel tempo di un bicchiere di vino.

La strumentazione e le composizioni ripercorrono l’intimità dell’album. La briosità, l’ebrezza delle scritture, come topoi che si ripetevano armonicamente nei primi album, vengono ora accennate, senza rinunciare agli strumenti a fiato e alle percussioni, al fine di stimolare l’atteggiamento di ricerca e di fame di identificazione e sogno. La canzone d’autore, infatti, è prima di tutto una prosa  moderna e narrativa nella quale potersi riconoscere, e questo è percepito nel momento in cui si svelano i riferimenti più istintivi e automatici: “il quinto evangelista”;  “il Signor G”; “l’anarchico”; “il professore” o “il figlio unico della canzone italiana”. Tutti quanti hanno fatto sì che ognuno di noi potesse imbracciare il sistema di valori, credenze e simboli più vero per la propria persona, in una forma così sublime che spiega la malinconia e la nostalgia nostra nel guardare al cantautorato italiano, il quale, a prova di quanto appena detto, diamo per dismesso. Ecco, Alessandro Mannarino è il progresso che, etimologicamente, muove un passo anche discreto, ma non per forza qualitativo. Tuttavia, il plauso doveroso è indirizzato allo spirito che coinvolge e trascina lungo un viaggio che riscopre l’umanità.

Traccia Consigliata: Gli Animali.