Oggi vi raccontiamo velocemente i nostri pensieri su una manciata di dischi usciti negli ultimi giorni: l’ennesimo album di Ty Segall, il sophomore di L I M, il secondo episodio di Culture dei Migos e molto altro.

No Age – Snares Like a Haircut

C’è stato un momento, tra il 2007 e il 2008, in cui sembrava che i No Age fossero destinati a diventare un fenomeno di culto, una di quelle band che tra trent’anni avremmo ricordato come veri e propri eredi di un certo tipo di noise rock capitanato dai Mission Of Burma. Dieci anni dopo eccoci qui: Snares Like A Haircut esce a cinque (!) anni di distanza dal deludente An Object, ma l’impatto dei No Age sul nostro tempo è pressoché nullo. Cosa può dire questa combinazione chitarra-batteria che non sia già stata declinata in 1000 altri modi già dopo quel capolavoro di Nouns? Esatto, praticamente niente, ma ci rimangono i pezzi, che si dividono tra quelli più muscolari che strizzano l’occhio agli anni d’oro del duo e quelli più stratificati e gazey dell’ultimo album. A vincere è l’impatto nudo e crudo – Cruise Control, Send Me, Popper – ma i No Age escono rafforzati dal flop di An Object riuscendo a rendere coinvolgente anche un pezzo in apparenza debole come Squashed. Un buon ritorno in ogni caso, anche se decisamente fuori tempo massimo.

Voto: 6.4 – Sebastiano Orgnacco

Ty Segall – Freedom’s Goblin

Dotato di una produttività fuori dagli schemi, ecco che anche il 2018 inizia con un nuovo album di Ty Segall, la cui vena creativa è stata ultimamente oscurata dagli exploit dei King Gizzard & The Lizard Wizard, ma che può comunque vantare una discografia sterminata e uno status di culto ben cementificato. Dopo avere usato gli stessi aggettivi per lavori come Manipulator e l’ultimo Ty Segall, di Freedom’s Goblin possiamo affermare come sia l’album della definitiva maturità, quello che lancia ufficialmente Ty fuori dagli schemi dell’iperattivo chitarrista lo-fi dalla distorsione facile, abbracciando un livello di scrittura ben oltre i suoi standard. Il solito garage rock, ma anche power pop, fiati, proto-funk, per una visione d’insieme che a Ty sarà sicuramente chiara, ma che nell’ora e 15 di durata dell’album finisce inevitabilmente fuori fuoco. Chiariamoci: non esiste un pezzo debole in Freedom’s Goblin, e di pezzi davvero belli ce ne sono inevitabilmente molti (pistola alla tempia ve ne butto lì 3: Every 1’s A Winner, The Main Pretender, She), ma c’è talmente tanta roba da risultare soverchiante. Un ascolto impegnativo, di sicuro galvanizzante, ma noi continuiamo a preferire il Ty Segall che arriva subito al punto (Slaughterhouse, Twins).

Voto: 7.0 – Sebastiano Orgnacco

Migos – Culture II

Con i Migos è sempre un affare di famiglia: dal nucleo consanguineo cugino-zio-nipote, la santissima Trinità Offset/Quavo/Takeoff, alla galassia di amici e collaboratori consolidatasi attorno, corte reale vastissima che, chiamata ad unire le forze, come Re Mida trasforma in oro quello che tocca. Culture II temporalmente si distanzia di un anno dall’ultimo, omonimo, album del trio di Atlanta, stella sul curriculum di tre personaggi altrimenti parodia di se stessi, sbeffeggiati ed emarginati per quelle stesse movenze, sonorità e linguaggi diventati parte integrante della realtà trap ed hip hop contemporanea. Alla produzione un cast invidiabile, walk of fame di Murda Beatz, Metro Boomin, Pharrell e Kanye West, che agevola lo scorrere di una tracklist troppo lunga (24 pezzi, utili più a salire nelle charts che ad offrire un ventaglio di scelta d’ascolto), ma salvabile per la qualità delle collaborazioni e dalla legittimazione a credibili artisti rap del gruppo, scrollatisi di dosso il meme del dab e delle allitterazioni ossessive. C’è la quasi-sposa Cardi B, ci sono Nicki, Drake, l’idolo dei Migos -per loro stessa ammissione – Gucci Mane, Travis Scott, 2 Chainz: è una tavola imbandita ricca di pietanze servite tutte insieme, tanto numerose da oltrepassare la sazietà, ma stuzzicanti dove tentata la variazione sul tema (Too Much Jewelry, Bad Bitches Only, MotorSport). Di trap nel mondo ce n’è da vendere, di interpreti non richiesti anche più: i Migos conservano gelosamente un angolo sul carro dei vincitori, questa volta non meritandolo completamente, ma col minimo sforzo di chi è bravissimo, ma non si applica.

Voto: 6.4 – Laura Caprino

L I M – Higher Living

Due singoli hanno preannunciato Higher Living, primo album di Sofia Gallotti sotto il suo ormai affermato progetto L I M. YSK e Rushing Guy ci hanno dato infatti una chiara idea di come si sarebbe evoluto il sound di questo progetto rispetto all’ep Comet, divenendo immateriale, calmo e omogeneo. La bonaccia che muove Higher Living ci culla verso mari dolci, come in Fire Baby (4 U), segnato dal calore dei ritmi tribali costanti e il mite suono classico di un piano che entra ed esce di scena, perdendosi poi nell’interludio quasi musique concrete di HL #1.
Alla mente saltano infatti diversi nomi, da Daphne Oram ai Morcheeba, Nils Frahm Sampha. Non stupisce poi la qualità dell’alta produzione (marcata da RIVA), studiata al dettaglio, capace di rendere ogni  singolo suono dipendente da ciò che lo segue. Il valore artistico di L I M dona una luce particolare al progetto, differenziandolo da molti altri del genere. La singolarità di questo ha ormai contribuito a renderlo una sicurezza, difficile da non ammirare.

Voto: 7.6 – Claudio Carboni

Django Django – Marble Skies

Come in un libro pop-up, più elementi si incastrano a completare la scena, dettagli fitti di un quadro dinamico. Gli Django Django possiedono la dote dell’orchestralità, suonando organicamente d’insieme pur mescolando influenze, derivazioni, strumenti, generi. Epici, tribali, elettronici e sinfonici allo stesso tempo, determinano una produzione unica nella sua eccezionalità: chi altri destreggia la medesima abilità di rendere fluidamente paralleli in un’unica traccia accenni western, psych rock e sintetizzatamente dance? Date le premesse, e percorsa una migrazione in tre album dal breaking act di debutto, figli dell’indie 2007 e della nomination al Mercury Prize, ad un lavoro che non ne esorcizzasse la natura nell’essere manifesto dei passi avanti compiuti, Marble Skies avrebbe dovuto scandire un traguardo senza eguali, diametro della circonferenza della crescita di una band ormai rodata e consapevole delle proprie potenzialità. Parzialmente, lo scopo è raggiunto, conservati i sound tropicali (sperimentati da sfondo alla voce di Rebecca Taylor, metà del duo brit Slow Club), e galattici, che rendono il gruppo astronauta di un cosmo in cui le ere temporali si confondono ed i ritmi si sformano, accelerati nei beat o affondati di netto nelle chitarre. Escludendo indiscutibili hit, tuttavia (Marble Skies, Tic Tac Toe, la suprema In Your Beat), il disegno si adagia su se stesso, portando a termine un obiettivo dirompente solo sulla linea di partenza, ed oltre non sostenuto. Soddisfa perché diversamente non potrebbe essere, la matrice è eccellente e tale si conferma; che esistano ancora pianeti da esplorare nel loro universo, però, è un’ulteriore certezza.

Voto: 6.5 – Laura Caprino