Il tredicesimo album di Jay-Z, 21 anni dopo il debutto con Reasonable Doubt, è tra i lavori più personali della sua intera carriera, per la prima volta prodotto completamente da un unico produttore, No I.D., non uno qualunque, ma un veterano che oltre ad aver già lavorato con Jay-Z in passato, ha realizzato, tra gli altri, il classico album I Used To Love H.E.R. di Common, Heartless e Black Skinhead di Kanye West e buona parte di Summertime ’06 di Vince Staples. Qualitativamente parlando, le sue produzioni anche in questo disco sono di altissimo livello.
Kill Jay-Z
L’album si apre con Kill Jay-Z (che contiene il campione di Don’t Let It Show degli Alan Parson Project), un autentico monologo interiore in cui racconta i problemi che ha dovuto affrontare in questi ultimi anni, oltre a incidenti che riguardano il suo passato con i quali ritorna a fare i conti in una sorta di dialogo-accusa con se stesso (“Kill Jay Z, they’ll never love you/You’ll never be enough, let’s just keep it real, Jay Z”), fa mea culpa su episodi che riguardano il suo passato (“Fuck Jay Z, I mean, you shot your own brother/How can we know if we can trust Jay Z?…You got people you love you sold drugs to/You got high on the life, that shit drugged you”), risponde a Kanye West dopo essersi sentito tradito (“You dropped outta school, you lost your principles/I know people backstab you, I felt bad too/But this ‘fuck everybody’ attitude ain’t natural/But you ain’t a saint, this ain’t kumbaye/But you got hurt because you did cool by ‘Ye/You gave him 20 million without blinkin’/He gave you 20 minutes on stage, fuck was he thinkin’?/”Fuck wrong with everybody?” is what you sayin’/But if everybody’s crazy, you’re the one that’s insane”) e ricorda l’episodio che l’ha visto coinvolto con la sorella di Beyoncè al Met Gala del 2014 (“You egged Solange on/Knowin’ all along, all you had to say you was wrong/You almost went Eric Benét/Let the baddest girl in the world get away/I don’t even know what else to say…/I don’t even know what you woulda done/In the Future, other niggas playin’ football with your son”). Poco meno di tre minuti per ammazzare il suo ego, uno Shawn Carter che, a 47 anni, scopriamo anche saper essere umile.
The Story of O.J.
La seconda traccia, The Story of O.J. (costruita attorno a estratti di Four Women di Nina Simone e Kool’s Back Again dei Kool & The Gang) è una lezione di economia (“I told him Please don’t die over the neighborhood/That your mama rentin’/Take your drug money and buy the neighborhood/That’s how you rinse it.”) dove tra un consiglio e l’altro racconta di come anche un grande imprenditore del suo calibro a volte può sbagliare (I coulda bought a place in Dumbo before it was Dumbo/For like 2 million/That same building today is worth 25 million/Guess how I’m feelin’? Dumbo”) [n.d.r. il gioco di parole è tra dumb, idiota, e dumbo, acronimo di Down Under the Manhattan Bridge Overpass]; ma c’è spazio anche per elucubrazioni di stampo socio-economico (“You wanna know what’s more important than throwin’ away money at a strip club? Credit/You ever wonder why Jewish people own all the property in America? This how they did it”), deridere tutti quelli che ostentano la propria presunta ricchezza su instagram (“Y’all on the ‘Gram holdin’ money to your ear/There’s a disconnect, we don’t call that money over here”) rendere l’ascoltatore edotto sul suo fiuto per gli investimenti (“I bought some artwork for 1 million/2 years later, that shit worth 2 million/Few years later, that shit worth 8 million/I can’t wait to give this shit to my children”), una pubblicità occulta a Tidal (“Y’all think it’s bougie, I’m like, it’s fine/But I’m tryin’ to give you a million dollars worth of game for $9.99”) e mettere in chiaro quale sia ancora oggi il suo obiettivo principale (“Financial freedom my only hope/Fuck livin’ rich and dyin’ broke”). Un Master in Business Administration sottoforma di canzone nell’arco di quasi 4 minuti, semplice chiaro e conciso. Geniale.
Smile
Smile, con il campione della splendida Love’s in Need of Love Today di Stevie Wonder, racconta di come i momenti difficili del passato sono stati d’aiuto per cambiare in meglio il suo futuro e della madre lesbica (“Push through the pain so we can see new life/So all the ladies havin’ babies, see a sacrifice/Mama had four kids, but she’s a lesbian/Had to pretend so long that she’s a thespian”), concludendosi con l’outro parlato in cui sua madre parla essenzialmente di amore e libertà. Siamo quasi a metà dell’album e possiamo dire di trovarci di fronte a un lavoro molto più serio e maturo del precedente Magna Carta…Holy Grail dal punto di vista dei contenuti (anche se fa strano doverlo sottolineare, visto che stiamo comunque parlando di un uomo di quasi 50 anni).
Caught Their Eyes
Caught Their Eyes è il primo brano dell’album in cui compare Jay-Z come co-produttore e il secondo che vede No I.D. lavorare su un campione di Nina Simone (qui della cover Baltimore di Randy Newman), ospite Frank Ocean con una parte rap-cantata con una cadenza raggamuffin che bene si sposa con la voce della Simone che entra ed esce in sottofondo; qui Jay-Z parla dell’essere consapevoli dell’ambiente che ci circonda e di come sopravviverci, per concludere con il racconto dell’incontro con Prince prima della sua morte condito da un’immancabile polemica nei confronti di chi lo circondava e curava i suoi interessi (“I sat down with Prince, eye to eye/He told me his wishes before he died/Now, Londell McMillan, he must be color blind/They only see green from them purple eyes…This guy had ‘Slave’ on his face/You think he wanted the masters with his masters?/You greedy bastards sold tickets to walk through his house/I’m surprised you ain’t auction off the casket”).
4:44
4:44 da il titolo all’album e prende il nome dall’ora in cui si è svegliato per scriverla, brano centrale e parte cruciale di questa sua ultima fatica discografica. Su un campione di Late Nights and Heart Breaks di Hannah Williams and the Affirmations, in 4 minuti e 45 secondi riesce a ripetere I Apologize 7 volte e sostanzialmente vergognarsi come un cane per aver tradito la sua compagna e mancato di rispetto al genere femminile (“Look, I apologize, often womanize/Took for my child to be born/See through a woman’s eyes….I apologize to all the women whom I/Toyed with your emotions because I was emotionless/And I apologize ‘cause at your best you are love”); ci fa capire che puoi anche essere ricco sfondato ma se tieni una compagna come Beyoncè e fai cazzate in giro…conviene cospargersi il capo di cenere, dire pubblicamente che sei una merda d’uomo ed esporti al pubblico ludibrio (“And if my children knew, I don’t even know what I would do/If they ain’t look at me the same/I would prob’ly die with all the shame…”You did what with who?”/What good is a ménage à trois when you have a soulmate?/”You risked that for Blue?”/If I wasn’t a superhero in your face/My heart breaks for the day I have to explain my mistakes”). Insomma abbiamo capito chi porta i pantaloni in casa.
Family Feud (Ft. Beyoncé)
Family Feud (che contiene parti di Ha Ya delle Clark Sisters) parla delle divisioni presenti nella cultura e nella comunità hip hop, dove la nuova scuola di rapper manca di rispetto alla vecchia, e questi ultimi non comprendono le nuove generazioni (“And old niggas, y’all stop actin’ brand new/Like 2Pac ain’t have a nose ring too”), ma la parte che ha fatto più parlare è quella in cui sembra ammettere il tradimento, e lo fa usando metafore cinematografiche e attribuendo la colpa fondamentalmente al fatto di non avere avuto gli strumenti necessari per risolvere la situazione a causa della mancanza di una figura maschile positiva durante l’infanzia (“Yeah, I’ll fuck up a good thing if you let me/Let me alone, Becky/A man that don’t take care his family can’t be rich/I’ll watch Godfather, I miss that whole shit/My consciousness was Michael’s common sense/I missed the karma that came as a consequence/Niggas bustin’ off through the curtains ‘cause she hurtin’/Kay losin’ the babies ‘cause their future’s uncertain/Nobody wins when the family feuds/We all screwed ‘cause we never had the tools”). Nel ritornello compare Beyoncè che canta gioviale come una cinciallegra e Jay-Z, massimo esponente degli ultimi romantici rimasti sulla terra, chiede: “What’s better than one billionaire? Two”, a cui gli fa eco la sua dolce metà.
Bam (Ft. Damian Marley)
Con tutti i casini di cui si è parlato fino ad ora nel disco, vi assicuro che da qui in avanti è una passeggiata di salute. E infatti in Bam collabora con Damian Marley, arrivati a questo punto del disco è lecito pensare che abbia chiesto al produttore di trovare un sample che sprigionasse allegria e spensieratezza (la scelta è caduta su Bam Bam di Sister Nancy e Tenement Yard di Jacob Miller), per un brano dove riconosce l’importanza del successo ottenuto e non manca di rifilare l’ennesima stoccata all’ex amico/socio Kanye (“Niggas is skippin’ leg day just to run they mouth/I be skippin’ leg day, I still run the world”).
Moonlight
Moonlight prende ispirazione dal film premio oscar 2016 e non è altro che un commento sulla cultura odierna e dove stiamo andando a finire (“Y’all stuck in La La Land/Even when we win, we gon’ lose/Y’all got the same fuckin’ flows/I don’t know who is who”), qui No I.D. si è divertito a giocare col campione di Fu-Gee-La dei Fugees.
Marcy Me
In Marcy Me ricorda i tempi in cui si dava da fare nelle Marcy Houses di Brooklyn (il suo quartiere), contiene il campione velocizzato, filtrato e messo in loop di Todo O Mundo E Ninguém della band portoghese Quarteto 1111, a fianco del quale hanno suonato Steve Wyreman (del suo gruppo Cocaine 80s) e Nate Mercereau.
Legacy
Legacy conclude l’album, con la figlia Blue Ivy che chiede: “Daddy, what’s a will?”. Sul campione di Someday We’ll All Be Free di Donny Hathaway (e parte di Glaciers Of Ice di Raekwon), parla direttamente alla figlia, spiegandole come fare per tramandare la ricchezza della famiglia alle generazioni future dei Carter (My stake in Roc Nation should go to you/Leave a piece for your siblings to give to their children too/TIDAL, the champagne, D’USSÉ, I’d like to see/A nice peace-fund ideas from people who look like we).
In questo album ci siamo trovati di fronte a un Jay-Z diverso rispetto ai lavori precedenti, che ha preferito mostrare le proprie debolezze e chiedere scusa per gli errori commessi piuttosto che sbattere nuovamente in faccia la propria smodata ricchezza al mondo intero. Nel produttore di Chicago No I.D. ha trovato un vero e autentico sarto, che gli ha cucito addosso il vestito migliore per quello che, a questo punto, potrebbe davvero essere l’epilogo della sua carriera.
Tracce consigliate: Kill Jay-Z, Caught Their Eyes, The Story Of O.J.