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NDR: Questo report è ispirato a una storia vera, vissuta a Milano da Simone Zagari e a Roma da Laura Caprino. Ogni riferimento alla scena romana è puramente intenzionale.

Per parlare d(e)i Pop X si fa riferimento spesso, troppo spesso, al Dadaismo piuttosto che alla Merda d’artista di Piero Manzoni. Rimandi altolocati, sì, e in realtà neanche del tutto fuori focus, ma che, comunque, distolgono l’attenzione dal fulcro pulsante del progetto, dalle cause e dalle conseguenze del tutto: il divertimento sfrenato, il delirio nonsense, il caos universale. Quale palestra migliore per saggiare la linfa vitale che scorre nelle vene del gruppo se non proprio il live, il palco, lo spettacolo?

Tanto al Tunnel di Milano, quanto al Lanificio 159 di Roma, l’affluenza è alta, altissima. Il pubblico è variegato, dai giovincelli animati dall’inesauribile energia per il pogo, a quelli un po’ più in là con l’età, sapientemente defilati onde evitare il contatto con sudore altrui e gomiti molesti. Al concerto dei Pop X se hai più di 25 anni sei quello che tiene il giubbotto in mano, incollato alle pareti come chi attende di essere invitato in pista al Prom del liceo. In generale, il clima è di festa, i sorrisi si sprecano e, almeno, i piedi battono a tempo. Sul palco romano l’attenzione viene catalizzata dal delirium tremens di alcuni presenti che invitano la band a palesarsi, elevando un selvatico richiamo (“FROCIII”) a volume ultrasonico, primo segnale della variegata gamma antropologica che ci circonderà e farà da compagna nel corso di una serata che è una puntata di Takeshi’s Castle.

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Sembra quasi di esser stati teletrasportati sul set di Freaks di Tod Browning, quando nel bagno di una delle venue concertistiche più rinomate della Capitale veniamo avvicinati da cosplayers travestiti da coniglio, post-adolescenti in preda ai fumi da botellon premiscelato Vodka alla pesca – Red Bull, che sta a questo oratorio di sciamannati discepoli come la codeina ai Sad Boys. Qualche mese fa, già testimoni di una performance fuori dai canoni al Teatro Quirinetta, avevamo appreso che il gruppo trentino godesse di un seguito ben più nutrito di quanto ordinariamente ci si potrebbe aspettare da una produzione non ancora tanto ricca: la notte romana è la riunione di un club aperto a chiunque si senta bizzarro, a chiunque sia nato bizzarro, e goffamente inneggi all’antieroismo da ultimo della classe, quello che alla fine vince la gara di scienze costruendo il vulcano che erutta.

Allo stesso modo, a Milano, la coda alla porta inesauribile è sintomatica di una fanbase tanto cospicua, quanto varia; per la legge dei grandi numeri, infatti, lì fuori in attesa al freddo ci puoi trovare il nerd insieme al gabber, l’indie attento ai trend dell’ultima ora o chi ha solo voglia di limonare e di ubriacarsi.

Ad anticipare il girone dantesco di Roma, provvede un estemporaneo artista americano concentratissimo sul suo sassofono, parentesi di ordinaria follia salutata dal pubblico con calorose ovazioni, “ché a noi la qualità c’ha rotto il cazzo”. Nulla stona quando tutto è disarmonico, persino un opening act completamente casuale che accoglie la brigata Panizza come avventori di un lounge bar in camicia hawaiiana e infradito. La band, entrata in scena, regala ai presenti una versione del singolone Secchio inedita, sorprendentemente musicata à la Nirvana fra chitarre che, in via eccezionale, sostituiscono i sintetizzatori.

Nel capoluogo lombardo, invece, i ragazzi si affacciano dal backstage già durante il dj-set di apertura, dando il via a danze sfrenate e facendo percepire la loro voglia di iniziare lo show attraverso la proiezione visuale di scritte non qui riproducibili, sino all’inequivocabile appello di Davide: “Basta cazzate, basta cazzate, iniziamo”.

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In entrambi i concerti Panizza è concentrato, quasi timido, canta tutto in autotune e tira dritto; i debosciati che gli gravitano attorno ce la mettono tutta per alimentare l’entusiasmo degli avventori tra stage diving, caschi luminosi, padelle e skateboard percossi come fossero strumenti.
Il live si costruisce chiaramente sull’ultimo lavoro Lesbianitj, i cui pezzi più d’impatto sono già conosciuti e cantati a memoria da tutti (Secchio, Froci della Nike, Azzurra, Sparami), ma c’è tempo anche per vecchie glorie come Cattolica e Io Centro Con I Missili accolte come fossero anthem generazionali. Tutto viene incanalato verso dei climax che sfociano, poi, in code dilatate fatte solo ed esclusivamente di cassa dritta, quella nuda e cruda, che associarla a un rave non è esagerato. A fare da corollario ci sono poi dei visual brutti, davvero molto brutti, volutamente brutti, ma è giusto così. Il rendering quasi comincia a piacerci, abituandoci ad un’estetica di ammucchiate in 3D fra paesaggi alberati ancora una volta, totalmente, sconclusionati.

Non c’è un modo giusto per definire Pop X, non c’è una ricetta vincente per approcciarlo. Lo devi prendere così come viene, senza porsi domande, cantando e ballando senza pensare a tutte le volte in cui viene ripetuta la parola frocio. In definitiva non si può non riconoscere a tutti quei pazzi là sul palco il merito di aver conservato la naïveté originaria, il menefreghismo verso “il circuito” nonostante la pubblicazione di un disco vero e proprio, la voglia viscerale di divertirsi e far divertire.

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La chiave interpretativa è l’accettazione del fatto compiuto, la risposta all’interrogativo: “Ma ci sei o ci fai?”. Nulla di ciò cui abbiamo assistito, a Roma e Milano, volge lo sguardo a metafisiche complesse, ad algoritmi del pensiero; è la notte che trascorri in gita di quinto con gli amici che probabilmente non rincontrerai finito il diploma, il disco-bar scadente in cui abbracciarli ad occhi chiusi, scivolando su basi eurodance. Il cantautorato posticcio dell’ultimo paio d’anni ha tentato di convincerci che narrare relazioni sentimentali infelici componendo liriche da minorati mentali sia la giusta via per guadagnarsi la denominazione di “CANZONE”: dietro ritornelli da stadio che si mordono la coda da soli, noi vediamo logica di mercato e sensazionalismo.

Questo club di weirdos, questi ragazzi della Terza C, sono, al contrario, quanto di più genuino possa apprezzarsi fra le nuove produzioni, prescindendo da un giudizio melodicamente qualitativo e soggettivo. La cosa più bella, ma bella davvero, è che ai Pop X della gogna mediatica non frega sonoramente un cazzo e questo ne fa, se non dei musicisti, sicuramente delle persone oneste.