Julia-Holter

Le fate esistono, ne ho vista una e sono qui per raccontarvelo.

Julia Holter torna a Milano dopo due anni, forte di un album in più alle spalle, Loud City Song, e lo fa con uno show eseguito in (metaforica) punta di piedi ma fiero, delicata quanto rapida a dimenticare grazia e buone maniere per tormentare la tastiera; slegata dal vivo più ancora che su album dalla canonica forma canzone, si fa accompagnare da violoncello, violino, sax e batteria.
La location è degna di più di una nota: la sala cenacolo del secondo chiostro del Museo della scienza e della tecnologia accoglie il vasto pubblico incendiata dal rosso cremisi dalle luci di scena. Lo spazio, di oltre duecento metri quadri, non soltanto è di una bellezza estetica impressionante, (le pareti e il soffitto sono stati completamente affrescati e stuccati da Pietro Gilardi a inizio XVIII secolo), ma supera anche una prova ardua come quella della resa acustica.

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Giusto il tempo di sedermi sulle panche intarsiate ai lati ed entra Julia seguita dal resto del gruppo, iniziando a suonare senza preamboli.  Solo dopo i primi due brani si apre al pubblico, saluta e ringrazia. La scaletta pesca a piene mani dal già citato ultimo lavoro in studio, ma non solo; c’è spazio anche per la dolcezza crepuscolare di Betsy on the Roof, mai incisa su cd ma amatissima dal vivo, seguita dall’altrettanto cupa Horns Surrounding Me che in sede live riceve una spinta ulteriore al già trascinante lavoro degli strumenti che la animano. Cupa e profonda sì, ma non tale da coprire una squillante anima jazz, che trova sfogo grazie soprattutto al sassofono.

I brevi, timidi intermezzi nei quali dialoga con il pubblico sono l’unico spiraglio di tempo in cui la melodica tensione dell’atmosfera si ammorbidisce e lascia spazio a qualche timida, cristallina risata della performer che quasi gioisce fra sé e sé. Ancora tinte fosche, meno ritmo e più soul, per la cover di Barbara Lewis Hello Stranger, altro caposaldo delle esibizioni live della Holter.
Chiusura apparente affidata ad un altro brano estratto da Loud City Song, Maxim’s II. Il caos strumentale della seconda metà dell’esecuzione viene sciolto dalle briglie e prende il controllo dei timpani dei presenti per un minuto buono, una cornucopia di suoni che pure rovesciata a cascata non distrugge ma invece costruisce un finale eccezionale.
Il calore degli applausi la richiama al bis, che altro non è che l’appena eseguita Maxim’s II in una rivisitazione più morbida. Di nuovo una scrosciante approvazione e la consapevolezza che questa piccola, raccolta meraviglia di un’intensa ora è davvero giunta alla fine.
Appena messo piede fuori si vorrebbe quasi tornare dentro e chiedere un’altra canzone, una soltanto; alla prossima, cara Julia, ti canticchierò It seems so good to see you back again. How long has it been? Seems like a mighty long time. Shoo-bop, shoo-bop…