Gli Arctic Monkeys tornano in Italia dopo quattro anni e il benvenuto lo ricevono dall’Auditorium Parco della Musica, la cui cavea per la prima volta viene adibita ad una vera e propria arena di pogo e di calca sudante accorsa per salutare la band di Sheffield.

Gli Arctic Monkeys sono cambiati, Tranquility Base Hotel & Casino ha sancito l’evoluzione di Turner & co. verso lidi più adulti. Nell’album abbiamo assistito al progressivo abbandono della chitarra in favore del piano; la sensualità ha prevalso sulla caciara, i completi marroni con pantaloni a vita alta hanno sostituito le felpe e i jeans.

Sì ok, ma indie è per sempre, e per quanto voglia Alex Turner sottolineare il cambiamento, per quanto i look siano retró e le camicie siano bianche, beh, arrivano poi i concerti, e lì non c’è forzatura che tenga: come Clark Kent diventa Superman, il pensiero è che il mezzobusto di Matt Helders era sì incamiciato, ma sotto, nascosto dalla batteria, c’era un bel paio di calzoncini adidas Originals, o magari quelli della nazionale di calcio inglese. Una fantasticheria lecita, perché davvero il palco sta agli Arctic Monkeys come la cabina telefonica al supereroe. Alex Turner aveva pure lasciato dichiarazioni di una certa vergogna per i testi del passato, per le fasi degli scorsi album, ma quel che abbiamo potuto apprendere almeno dal concerto di domenica 27 maggio, è che non c’è proclama che tenga: gli Arctic Monkeys sono sempre loro, e per quanto a parole e in studio vogliano portare a un pezzettino sempre oltre la loro proposta artistica facendo parzialmente terra bruciata del passato, nei concerti dimostrano di non poter assolutamente cancellare le loro radici.

Alex ancora impugna la chitarra com grande vigore e anzi, con i nuovi abiti addosso sembra un rockstar proveniente dagli anni aurei del genere; si era detto della troppa sciatteria della batteria nel sesto album, ma i piedi hanno tremato sopra le scosse che Matt emanava per tutte le superfici della Cavea. Jamie Cook e Nick O’Malley chiudevano quasi sempre il perimetro dello spazio scenico, e davvero, insultate pesantemente il prossimo che li riconosce solo come “gli altri due degli AM”.

A proposito dello spazio scenico, notevole è stato il movimento sul palco: oltre ai quattro della band, si alternavano spesso diversi altri musicisti, per cui c’era un palco quasi sempre affollato da 8 persone, e anche di più, perché i tecnici sono intervenuti spesso per permettere il continuo cambio di chitarre. Ecco, infatti diretta conseguenza del mantenimento del “vecchio stile” misto al “nuovo”, è la grande dinamicità del concerto sotto ogni aspetto: continui cambi di posizioni, posizioni statiche per i brani di Tranquility Base (e comunque Alex sa comunicare anche da seduto sullo sgabello della tastiera), e tanto tanto macello durante i pezzi movimentati provenienti dai precedenti dischi. Stessi movimenti anche da parte del pubblico, che ha seguito il percorso proposto dalla band. Per quanto riguarda il pubblico, anche qui va detto che non si è “sfoltito” per niente: gli Arctic Monkeys continuano ancora ad attirare favori che costituiscono una fan base che ormai spazia tra maglie molto larghe per genere e anni.

Si può affermare che la chiusura romana degli Arctic Monkeys è stata una grande prova, seppur finita un po’ improvvisamente, ma d’altronde ormai il repertorio del gruppo è talmente ampio che proporre una scaletta è diventato un mestiere di scelte per niente facile (in sostanza o suonano per 12 ore, oppure per forza di cose lasciano l’amaro nella bocca di molti fan per aver tralasciato qualche successo).

Quel che si può dire agli avventori milanesi della prossima tappa italiana: preparatevi perché gli Arctic Monkeys stanno davvero in forma smagliante, e per quanto le loro intenzioni ideali abbiano voluto allontanarsi dalle origini, non c’è niente da fare, indie è davvero per sempre. E uno dei lavori più belli del mondo a cui si può aspirare oggi è fare l’Alex Turner.

(Foto via Indipendente Concerti, credits: Roberto Panucci)