Oggi vi raccontiamo velocemente i nostri pensieri su una manciata di dischi usciti negli ultimi giorni: il nuovo lavoro di Fever Ray, l’EP dei Wild Beasts, lo strafalcione dei Weezer e l’ottimo sophomore di Julien Baker.

Weezer – Pacific Daydream

La carriera dei Weezer si è da sempre divisa tra album riusciti e dischi di merda. Visto anche il genere in questione, la differenza la fanno i brani, la scrittura, i riff e soprattutto le melodie, a volte contagiose e a volte al limite del fastidioso. Se il precedente White Album omonimo aveva riportato la band di Rivers Cuomo sui radar della Buona Musica, questo Pacific Daydream ci trascina bruscamente alla dura realtà, con il photoshop brutto dell’artwork a fare da apripista ad un disco che nelle intenzioni vorrebbe essere scuro e adulto, ma che invece suona come la versione sotto steroidi di certo pop blando da FM (Pink, Train). Non aiutano brani che vorrebbero suonare come classici alla Weezer (Feels Like Summer, Mexican Fender, Happy Hour) e che invece affogano nell’anonimato della produzione sopra le righe di Butch Walker (Avril Lavigne, Katy Perry), ma è l’intero album a suonare fuori posto e superfluo, buono soltanto come scusa per tornare in tour e suonare i grandi classici.

Voto: 4.8 – Sebastiano Orgnacco

Fever Ray – Plunge

Orfani dei Knife, riuniamoci. Gioiamo insieme perché, dopo il self titled del 2009, Karin è tornata in versione solista, nei panni di Fever Ray. Già dal primo ascolto, però, questo Plunge pare più figlio del gruppo ormai scioltosi piuttosto che creatura esclusiva dell’artista svedese. È infatti tutto lì, ciò che rimpiangevamo, ciò che temevamo di aver perso per sempre: i synth familiarmente sinistri, denti di sega taglienti come rasoi, la voce (im)perfetta, ma anche e soprattutto le percussioni marziali e cristalline, marchio distintivo del duo. L’elettronica è notturna come sempre ma il cielo questa volta pare stellato, anche se capita che nubi oscurino la luna. Karin parte da un pattern sonoro prevedibile ma lo relega alla sola radice del processo, mere fondamenta su cui erigere un nuovo mondo, oggi, che spazia dall’esotico all’esoterico al cibernetico, senza soluzione di continuità. Pop degli esordi, isterica frenesia cinetica degli ultimi lavori, liriche calate nel contemporaneo (relazioni sentimentali, politica, sessualità, genere) e futurismo per le masse si intersecano, formando il DNA dell’ottimo Plunge, un’opera senza sbavature, personale in ogni singolo suono ed elemento.
Forse il tempo non ci darà indietro i Knife, è ora di farsene una ragione, e Plunge è la ragione migliore che potessimo sperare.

Voto: 8.0 – Simone Zagari

Wild Beasts – Punk Drunk & Trembling EP

“What did you expect from post break-up sex?”, intonavano i Vaccines nel 2011, incarnando quell’amico che te lo aveva consigliato, lui, di non ricascarci un’altra volta, ché quando una cosa bella si infrange, a farla tornar bella come prima si fatica. E allora si ricerchi il senso della pubblicazione di un EP postumo da parte dei Wild Beasts, -troppo- freschi di separazione avvenuta lo scorso Settembre, composto di due tracce estratte dalla deluxe vinyl edition dell’ultimo album Boy King, e di un inedito recuperato dalla medesima sessione. Volendosi intendere la nuova uscita come arrivederci ulteriore, teneramente consolatorio d’un sapore amaro, logica vorrebbe che l’exploit fosse di tenore superlativo, ultima scia di profumo lasciata, voltando le spalle, a tormentare i ricordi degli anni a venire: con poca soddisfazione, tuttavia, i tre brani si susseguono senza organicità, senza contorno d’insieme, cuciti dal solo intento finale e non da una motivazione sottostante. La title track Punk Drunk & Trembling corregge un tiro maldestro tenendo alta la difesa, da sola supplendo alle carenze del prodotto nel complesso, sfruttando quella cifra stilistica del gruppo che è chitarra-basso-sintetizzazioni, e non la debole assimilazione al sound tribale, da altri già imbracciato, che spontaneamente emerge al primo ascolto (Last Night All My Dreams Came True come sbiadita e debole eco della produzione siglata Glass Animals). Bene l’aver tentato, non anche il congedarsi con un inchino, senza raccogliere rose rosse sul palco: Punk Drunk & Trembling è un bacio d’addio, preso atto che qualcosa non potesse più funzionare, ma sulla guancia, schivando le labbra.

Voto: 6.0 – Laura Caprino

Julien Baker – Turn Out the Lights

Julien Baker sarà solo al secondo album ma chiunque l’abbia ascoltata sa bene che qualsiasi cosa tocchi è garanzia di piantoni, di quelli ridicoli e irrazionali che eri lì a vivere la tua vita e poi t’arriva un pugno in piena faccia da un pezzo come Appointments. Il fatto che pianga anche lei durante alcune esibizioni è solo l’ennesima prova della genuinità della musica della cantautrice, musica che nasce dalla complessità dell’essere cristiana e queer nel sud degli Stati Uniti, oltre che dalle complicazioni dell’abuso di droga e della malattia mentale; è una genuinità che si traduce in un approccio semplice, spesso spoglio, ma che proprio in questo trova la perfetta realizzazione di forma e contenuti. In Turn Out the Lights i racconti di Baker sono dubbi e domande, e la malinconia quasi speranzosa che traspare dai testi si riflette nel modo in cui vengono accompagnati: la sensazione è quella di vedere Julien, sola con la sua chitarra elettrica, in una grossa stanza vuota che amplifica suoni e minimi cedimenti vocali – e, vista l’atmosfera quasi religiosa che pervade l’album, non sarebbe troppo azzardato pensare ad una chiesa. Una semplicità che rischierebbe di sfiorare la monotonia se non fosse per una (auto-)produzione elegante che spesso integra piano, archi e addirittura fiati (di Cameron Boucher dei Sorority Noise) ma sempre in un modo molto discreto, che rifugge la grandiosità strumentale preferendole invece la crudezza del messaggio. Il messaggio – come nella migliore scuola emo da cui è nata – non ha compromessi e trova nella voce di Julien Baker la sua potentissima valvola di sfogo. Buon piantino a tutti.

Voto: 7.8 – Claudia Viggiano