Ci vuole coraggio a fare un album nel 2019 e chiamarlo Ode to Joy.
Penso ai Vampire Weekend di Father of the Bride (Why’s it feel like Halloween since Christmas 2017?), agli IDLES di Danny Nedelko (My blood brother is an immigrant / He’s made of you / He’s made of me / Unity) ai Low di Double Negative (Before it falls into total disarray / You’ll have to learn to live in a different way) e perfino a DAMN di Kendrick Lamar: è innegabile che alcuni dei migliori e più chiacchierati album usciti negli ultimi tempi siano sociallyconscious, tentativi diversi di trovare un senso a questi anni che un senso non ce l’hanno. Cosa può fare un artista nell’era di Trump, della Brexit, dei populismi dilaganti e delle catastrofi ambientali? Può diventare politico (DAMN), oppure può cercare di fare una cosa anche più difficile: distribuire empatia, una manciata di speranza e qualche pacca di comprensione sulle spalle. Con Ode to Joy i Wilco provano proprio a fare questo: ci vuole coraggio per salire su un palco e cantare “I’m worried about the way we’re all living / And this is my love song” (One and a Half Star) o “Right now, right now, love is everywhere” (“Love is Everywhere (Beware)”). 

Questo disco è paradossalmente un inno alla gioia; con tutte le cose orrende che stanno succedendo ultimamente, l’autoritarismo strisciante che pesa sulla nostra psiche ogni santo giorno, l’unico sentimento che bisognerebbe ancora provare, per cui bisognerebbe combattere, è la libertà di gioire anche se tutto il resto va a puttane (Jeff Tweedy)

Non pensate comunque di trovarvi davanti un album di buoni sentimenti e positività: il disco, più che della libertà di gioire, sembra parlare di tutto quel resto che sta andando a puttane, e il mood rimane in massima parte malinconico. D’altronde stiamo parlando di Jeff Tweedy la-rockstar-mugugnante, uno che dà il meglio di sé (e ci piace di più) quando é dolente, insicuro e stropicciato dalla vita. E non é un caso che sulla quarta di copertina di Let’s Go (So We Can’t Get Back) campeggi questa frase di Tweedy: “Non avere problemi a mostrarmi vulnerabile è molto probabilmente il mio super-potere”. Nessun fan dei Wilco potrà smentirla.

Ode to Joy arriva dopo un periodo prolifico per Tweedy, che si è imbarcato in progetti e progettini paralleli tra cui la scrittura della propria biografia – la splendida Let’s Go (So We Can Get Back), uscita appena un mese fa in Italia per Edizioni Sur – la produzione di un altro album dell’icona soul Mavis Staples e ben tre dischi solisti (Together At Last del 2017, WARM del 2018 e WARMER di quest’anno). Una roba che neanche Ty Segall.
E poi arriva Ode to Joy: undici canzoni low-key, semplici e primitive, folk-rock chitarra e (sotto)voce dolente alla Tweedy, quasi tutte sorrette dalle parti di batteria martellanti come marcette (One and a Half Star, Citizens, We Were Lucky) di quel mostro di Glenn Kotche. Anche la chitarra dell’altro mostro Nels Cline non è più spigolosa o nervosa come nel precedente Schmilco (Common Sense, Locator) ma calda e rilassata  (White Wooden Cross). Per non parlare dei pezzi più tradizionalmente wilconiani del disco – il primo singolo Everyone Hides e l’irresistibile Hold Me Anyway – che sono pronta a scommettere diventeranno due futuri classici dello sconfinato repertorio da live di una band che non ha mai fatto un vero passo falso.

Ode to Joy é il miglior disco dei Wilco da Sky Blue Sky (2007). Un album di sentimenti dichiarati e di paure rivelate, di musica calibrata e ridotta all’osso. Dove sta la gioia del titolo? Forse nel fatto che questa “piccola orchestrina messa insieme per suonare A Ghost Is Born” – è così che Tweedy definisce nel libro la composizione attuale dei Wilco. ovverro John Stirratt, Glenn Kotche, Mikael Jorgensen, Pat Sansone e Nels Cline – è ancora qui, si diverte a suonare insieme e produce album così.