I We, The Modern Age! sono la prove inconfutabile che anche la musica italiana può avere un respiro e un appeal internazionale. Danno speranza, e ci ricordano che possiamo fare di più che inseguire l’hype locale di (camo)merda, più che  ficcare una chitarra acustica in un ampli a valvole, bendarci prima di equalizzare e urlare nel microfono minchiate post-folk, facendo finta di avere l’accento salentino anche se siamo di Busto Arsizio (senna nulla togliere alle due subscene locali, sia chiaro). I We, The Modern Age! si sono ricordati che l’Italia ha avuto Rossini, e anche Vivaldi. E sono stati bravi.

Ora, se mi perdonate la sbrodolata in incipit sulla scena italiana contemporanea (dobbiamo aprire gli okki!!), cominciamo ad analizzare questo Mirrors.

L’intro ci guida, con un’atmosfera di chitarre dilatate, alla quale, in un crescendo dalle ottime dinamiche, si aggiungono basso, batteria, ed infine voce. Il cantato è in inglese, discreto e preciso, anche se purtroppo a volte poco comprensibile. Con ottimi arrangiamenti e un’atmosfera delicata che talvolta si tinge di shoegaze, strizzande sempre l’occhio a produzioni più pop, Intro si conclude in modo (quasi) inaspettatamente precoce, lasciandoci la voglia di andare avanti ad ascoltare. Segue Golden Years, un pezzo abbastanza tradizionale, onesto: episodi di chitarra elettrica si alternano a momenti di forte abbastanza scontati, andando a comporre un pezzo carino e un po’ modaiolo, che si lascia comunque ascoltare gradevolmente. Segue PLS, e i nostri dichiarano più esplicitamente il debito nei confronti del brit pop delle origini, Stone Roses in primis: su una linea di basso semplice ma efficace fanno il loro ingresso un riff di chitarra, la voce, poi entra la distorsione, forte, sincera e coinvolgente (vi ricordate il secondo disco degli Stone Roses? Ecco). Il pezzo che segue Standing On The Shore Of Nowhere si apre su un interessante giro chi chitarra acustica accordata in dropped D, voce e cassa in battere. Ogni tanto fa capolino un’elettrica, potente e decisa, componendo un pezzo vario e interessante, memore delle atmosfere di certi Black Rebel Motorcycle Club, certamente non incredibilmente attuale né innovativa, che tuttavia non ha alcuna pretesa di esserlo; un pezzo che non fa certo urlare al miracolo, tuttavia capace di farsi riascoltare un paio di volte. Poi ci sono Brooks Stevens e Eighteen, molto più vicini al mood con il quale il disco si era aperto; due pezzi carini e senza pretese, tuttavia meno degni di nota di episodi precedenti. Nei tre brani successivi torna quella gradevolissima tendenza vintage, che, miscelata con precisa attenzione, si era tanto fatta apprezzare prima. Gli arrangiamenti e le dinamiche sono gestiti molto bene, dando un valore aggiunto al disco nel suo complesso. Su Ride, che di nuovo si apre con un gradevole episodio acustico, il disco si chiude con spensierato appeal, mettendo in ombra i momenti meno ispirati di questo Mirrors.

Bravi ragazzi, questo lavoro è un lavoro ben fatto, onesto, gradevole e, qualità rarissima qui da noi, per nulla leccaculo. Possiamo forse criticare a questo Mirrors una certa discontinuità, la presenza di due tendenze, una che più ispirata e rielaboratrice di vecchie influenze, una forse più attuale, ma sicuramente meno interessante. Questo disco scivola via in fretta, forse un po’ingenuo, ma indiscutibilmente grazioso e sincero.

Recommended Thracks: Stang In The Shore Of Nowhere, PLS.

7.0/10